Carlo Lottieri, ALLE RADICI FILOSOFICHE E RELIGIOSE DEL PENSIERO LIBERTARIO

Carlo Lottieri, ALLE RADICI FILOSOFICHE E RELIGIOSE DEL PENSIERO LIBERTARIO

In Walter Benjamin c’è un passo nel quale viene evocata la leggenda settecentesca di un fantoccio abbigliato “alla turca” e capace di vincere ogni partita di scacchi. In realtà, dentro quella specie di automa vi era celato un nano abilissimo e questa immagine serve all’autore dell’Angelus Novus per sostenere che se la filosofia materialista sarebbe capace – a suo giudizio – di vincere ogni mossa, ciò può avvenire perché essa è animata, ad insaputa dei più, dal “nano” della teologia: da una filosofia della storia di carattere messianico e salvifico.

Quegli schemi possono essere riproposti, certo in termini alquanto diversi, se si ha l’accortezza di vedere nel pensiero politico libertario l’immagine più riconoscibile di tale teoria radicalmente liberale (la contestazione del monopolio statale, la proposta di un libero mercato della protezione e della giustizia, la valorizzazione della società quale “ordine spontaneo”) e nel nano celato al suo interno il nucleo metafisico più autentico ed originario. D’altra parte, quando si riflette con attenzione sulla maggiore figura del libertarismo novecentesco (quella di Murray Newton Rothbard), è necessario riconoscere come nell’opera di questo ebreo newyorkese confluisca una parte rilevante della tradizione filosofica occidentale. Essenzialmente lungo due distinte direttrici.

In primo luogo, Rothbard è erede ed originalissimo interprete della “scuola austriaca”, ovvero di quella corrente di pensiero che fu inaugurata – nella Vienna di secondo Ottocento – dall’economista Carl Menger, fautore di un “ritorno ad Aristotele” e del rigetto di ogni ipotesi di formalizzazione matematica delle interazioni sociali. Oppositore di ogni indebita trasposizione in ambito economico della mathesis universalis cartesiana, Rothbard sarà sempre molto esplicito nel contestare la possibilità stessa di interpretare le relazioni interpersonali che hanno luogo negli scambi quali fenomeni suscettibili di essere “misurati”.

Per l’autore de L’etica della libertà, d’altra parte, non può essere possibile alcun calcolo in un ambito (quello delle relazioni umane) segnato da preferenze soggettive e mutevoli, ma soprattutto caratterizzato dalla presenza del libero arbitrio degli attori individuali. Le accese polemiche contro Milton Friedman, allora, traggono origine proprio da qui: dalla contestazione delle semplificazioni metodologiche positiviste e dalla radicata convinzione di Rothbard che la moderna econometria abbia rappresentato uno straordinario strumento al servizio della pianificazione economica e della riduzione della società ad entità “amministrabile”.

Ma tale rigetto del positivismo non è il solo segnale del forte ancoraggio di Rothbard e del pensiero libertario – almeno nei suoi esponenti maggiori – alla metafisica realista: un radicamento, questo, che è del tutto evidente, ad esempio, in quel piccolo capolavoro di metodologia che è Individualism and the Philosophy of Social Sciences del 1979.

Quella libertaria, in effetti, è una linea di pensiero pervasa dal richiamo al giusnaturalismo. Contro il moltiplicarsi di prospettive scettiche e storiciste (presenti pure in ambito liberale, basti pensare a Hayek), Rothbard e quanti oggi stanno proseguendo la sua ricerca – da Hoppe a Block – ritengono che vi siano “verità” e “diritti” che nessun uomo può mettere in discussione. In questo senso, la tolleranza di cui si nutre il libertarismo rothbardiano non si basa sull’assunto relativista in virtù del quale si dovrebbe rispettare ogni opinione umana dato che nessuna sarebbe vera, ma semmai deriva dalla convinzione forte che gli uomini hanno diritti e che nessuno deve quindi aggredire il prossimo e i suoi beni.

Mentre la filosofia della modernità democratica ha conosciuto un esito giuspositivista (nel nome di Hans Kelsen, in primo luogo), i teorici libertari costruiscono le loro proposte richiamandosi a John Locke e all’idea di diritti individuali naturali. L’anarchismo individualista ottocentesco di un Lysander Spooner, che preparò il terreno al libertarismo contemporaneo, è in questo senso un’originale reinterpretazione dell’eredità jeffersoniana. Ma quando Spooner guarda a quella tradizione, è impossibile non cogliere come dietro a Jefferson vi sia Locke in persona.

Gli indizi a nostra disposizione, allora, sono sufficienti a definire un quadro sempre più chiaramente interpretabile. D’altro canto, mentre vi è una crescente consapevolezza del fatto che Locke è stato “l’ultimo degli Scolastici”, non meno fondata appare la tesi di Lord Acton secondo cui San Tommaso sarebbe il primo degli intellettuali whig. E se il libertarismo rothbardiano rigetta tanto lo scientismo moderno come il nichilismo post-moderno, tutto questo avviene in virtù della consapevolezza che vi è un nesso che collega la dissoluzione della tradizione filosofica occidentale e il trionfo delle istituzioni coercitive, ovvero sia dello Stato.

Un testo quanto mai significativo, a questo proposito, è quella storia del pensiero economico (An Austrian Perspective on the History of Economic Thought) di cui Rothbard riuscì a scrivere solo i primi due tomi, ma che proprio nel volume iniziale offre innumerevoli spunti di interesse. E non solo perché egli porta un attacco durissimo a Adam Smith, presentato quale “padre spirituale” del marxismo e fonte di molteplici confusioni teoriche. Ugualmente importante e per certi aspetti ancor più sconvolgente è la rivalutazione dei dibattiti precedenti la nascita dell’economia quale “scienza autonoma”, e quindi sganciata dal diritto naturale e dal realismo filosofico (oltre che dalla teologia cristiana).

La continuità tra pensiero medievale e libertarismo appare chiara a Rothbard medesimo, il quale arriva a scrivere che “San Tommaso – sviluppando la teoria dell’acquisizione propria del diritto romano e in anticipando in tal modo la famosa teoria di John Locke – basò il diritto all’acquisizione originale della proprietà su due fattori basilari: il lavoro e l’occupazione”. Nella sua lettura, così, “gli Scolastici furono pensatori sofisticati ed economisti sociali che favorirono il commercio e il capitalismo, e che difesero il prezzo di mercato quale giusto prezzo, con l’eccezione della questione dell’usura”. Se l’utilitarista Smith ha la responsabilità di elaborare la teoria del valore-lavoro su cui Marx costruirà le proprie tesi sul plus-valore e sullo sfruttamento capitalistico, ben più in sintonia con gli orientamenti libertari erano i teologi medievali e tardo-medievali, da San Tommaso alla Scolastica di Salamanca (un nome per tutti: Juan de Mariana).

La radice metafisica del pensiero aristotelico-tomista è quindi di fondamentale importanza per ricercare, parafrasando Benjamin, quale “nano” si celi all’interno della teoria libertaria. Ma ancor più importante è forse la dimensione eminentemente religiosa, riconducibile alle origini bibliche e cristiane della civiltà europea.

Così, quando ci soffermiamo proprio sulla questione dell’usura, siamo obbligati – con Rothbard – a rilevare che fu proprio all’interno dei dibattiti teologici che meglio si comprese l’esigenza di rispettare il diritto naturale ad “affittare denaro”. Nel momento in cui, per primo, Pietro di Giovanni Olivi si esprimerà per una parziale accettazione dell’usura, egli parlerà da esponente degli Spirituali, uno degli orientamenti più radicalmente anti-mondani della Chiesa del XIII e XIV secolo. Nel suo Tractatus de emptione et venditione, de contractibus usuraris et de restitutionibus, tale eminente figura di un movimento che avversava ogni allontanamento della fraternitas dalla povertà francescana originaria mostra intuizioni straordinarie, le quali mettono in luce come solo trascendendo la prospettiva greco-aristotelica sia stato possibile accedere ad una confutazione dell’oggettivismo naturalista e ad una piena legittimazione dell’economia libera, nella quale il quale il valore deriva dall’interazione delle scelte e delle opinioni dei singoli uomini.

Nella Quaestio prima, così, l’Olivi coglie chiaramente come il valore di un bene sia legato, in particolare, alla sua capacità di soddisfare le attese e i desideri (complacibilitas). E nel difendere la legittimità dello scambio mercantile, egli afferma che il contratto “nasce ed è ratificato da un libero e pieno consenso di ambedue le parti, tanto che il compratore desidera di più la cosa comprata che non il suo prezzo e il venditore il contrario. Ambedue infatti con pieno consenso intendono cedere la proprietà della loro cosa trasferendola totalmente all’altro”.

Come Rothbard ha evidenziato, per questo religioso francese (fautore della più rigorosa povertà) il mercato era “come un’arena in cui i prezzi per i beni sono formati dalle interazioni di individui con differenti utilità soggettive e dissimili valutazioni dei beni. I giusti prezzi di mercato, allora, non sono determinati dal riferimento alle qualità oggettive del bene, ma all’interazione di preferenze soggettive che hanno luogo sul mercato”. La sua disponibilità a mitigare il giudizio sull’usura e a comprendere la nuova civiltà mercantile maturerà da qui.

Per quanto paradossale possa sembrare, sarà insomma l’evangelismo radicale a condurre questo seguace francescano verso il riconoscimento della perfetta liceità delle relazioni contrattuali volontariamente adottate: e su questa strada egli andrà oltre l’aristotelismo di Tommaso d’Aquino e di altri scolastici.

Quella offerta dall’analisi che Rothbard riserva all’Olivi, ad ogni modo, è solo la riprova del fatto che quando ci si interroga sul senso più riposto e “religioso” del libertarismo risulta evidente come la dimensione teologico-politica di tale obiezione di fronte allo Stato moderno sia da riconoscere nell’idea secondo cui il prossimo ci trascende e per questo gli dobbiamo un rispetto assoluto. Nella teoria libertaria, il tema dei diritti individuali inviolabili è interpretato a partire dall’esperienza dell’altro, che nella tradizione cristiana rappresenta un misterioso incontro con Dio stesso: “ogni volta che avete fatto questo a uno dei più piccoli tra i miei fratelli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40). I diritti della persona che sono al centro del libertarismo si definiscono non già quali pretese di un singolo che si vuole autosufficiente e si presume autonomo, ma piuttosto come riconoscimento dell’intangibilità del prossimo, quale dovere assoluto di non aggredire colui che è di fronte a noi.

L’altro ci impone, sul piano morale, l’esercizio di un rispetto incondizionato. Posta tale premessa, la più coerente conclusione è che la violenza della politica moderna offende l’uomo e ne calpesta la dignità, considerandolo semplice oggetto di comandi e pura passività: una realtà senza diritti né autonomia. Per questa ragione, la schiavitù non sarà del tutto scomparsa dalla scena sociale fino al momento in cui non verrà accantonato lo Stato quale entità che rivendica il monopolio legale di taluni ambiti sociali. Nel mondo occidentale, infatti, la schiavitù permane soprattutto nell’istituzionalizzazione della coercizione, da intendersi sia come redistribuzione forzosa delle risorse che come impedimento ad intraprendere talune specifiche attività imprenditoriali (la libera produzione della giustizia e dell’ordine pubblico, in particolare).

In questo senso, il libertarismo accoglie dal Cristianesimo la radicalità di un insegnamento etico che sovverte ogni schema e si sforza di pretendere ordinamenti giuridici all’altezza di tale compito (e quindi “non coercitivi”, competitivi e liberamente accettati).

[Questo articolo è stato pubblicato in: Percorsi, anno II, gennaio 1998] 

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