Carlo Lottieri, L’ORO E LA CIVILTA’ DELL’OCCIDENTE

Carlo Lottieri, L’ORO E LA CIVILTA’ DELL’OCCIDENTE

Il Domenicale, sabato 19 aprile 2003

Ha avuto un ruolo fondamentale nella nostra vita lungo millenni. E proprio quando sembrava essere stato dimenticato, l’oro sta tornando alla ribalta per molte ragioni. Da qualche mese, ad esempio, è nelle librerie italiane un volume di successo scritto da Peter L. Bernstein, già finanziere multi-milionario ed anche autore di più di un best-seller della saggista internazionale: da Against the Gods a Capital Ideas. Il suo ultimo lavoro è infatti un’ambiziosa ricostruzione della storia dell’oro e del suo significato nel passato.

Ben scritto e di facile lettura, The Power of Gold: The History of an Obsession (Oro, Longanesi, Milano, 2002, in vendita a 18 euro) è però un libro sostanzialmente sbagliato, che soprattutto non aiuta a comprendere quanto il metallo giallo sia stato utile allo sviluppo della civiltà europea e quanto potrebbe esserlo ancora oggi. Sulla base di superficiali considerazioni tra l’antropologico ed il psicoanalitico, l’autore considera il metallo prezioso per eccellenza una specie insana ossessione, una superstizione che ha dominato l’uomo occidentale lungo i millenni, una fascinazione irrazionale che avrebbe indefinitamente bloccato lo sviluppo economico ed frenato la crescita civile se avesse continuato a rappresentare la base degli scambi ed il punto di riferientno di ogni moneta.

Per giunta, l’analisi della storia americana offertaci da Bernstein vorrebbe farci credere che l’aperta ostilità del New Deal rooseveltiano nei riguardi dell’oro abbia permesso all’America di uscire dalla crisi, quando invece essa ha ancor più radicalizzato le difficoltà (mandando in crisi la stabilità della moneta e l’intero sistema bancario). Per lo stesso motivo, Bernstein considera uan specie di eroe l’economista John Maynard Keynes, che aveva spinto la Gran Bretagna a liberarsi del rapporto fisso tra oro e sterlina, ed un medesimo trattamento è riservato al repubblicano Richard Nixon, il ‘keynesiano’ presidente degli Stati Uniti che cancellò definitivamente il gold-standard e pose le premesse per l’attuale recessione del sistema economico americano. L’oro, oggi bisogna inizia a comprenderlo, è stato un pilastro fondamentale della civiltà occidentale, al punto che la stessa europeizzazione del mondo – indotta dal successo dei popoli occidentali – sarebbe ben difficilmente stata possibile senza l’apporto di questo elemento naturale.

Se per secoli l’economia e la vita civile del mondo di tradizione europea sono state nel segno di questo metallo raro e prezioso, contraddistinto da molte speciali qualità (resistenza, bellezza, duttilità), le ragioni sono semplici e chiare. Esso aveva in effetti tutte caratteristiche necessarie a diventare la moneta dell’eccellenza: il medium più adatto a favorire i contratti e le compravendite, ma anche a permettere una sempre migliore divisione del lavoro. Esso è riuscito ad assolvere in modo eccellente quelle che classicamente vengono considerate le tre funzioni fondamentali di ogni moneta: operado come mezzo di scambio, come strumento di conto e, infine, come risorsa da capitalizzare.

Se oggi è quasi soltanto un ‘bene rifugio’, ovvero un investimento utile a difendere i propri risparmi quando le borse crollano ed ogni altro investimento appare azzardato, per generazioni e generazioni esso è stato al centro della vita economica dell’Europa e dell’America settentrionale.

Ma chi ha mai scelto l’oro quale moneta? Dove è quando è emersa la convenzione in virtù della quale l’oro – e non il ferro o il platino – è diventato la moneta di base per molti popoli anche tra loro distanti e senza relazioni? Queste domande sono fondamentali, poiché aiutano a cogliere come l’oro non sia mai stato scelto da una qualche autorità, ma sia emerso naturalmente attraverso gli scambi. Come ogni altra moneta ‘spontanea’ (le conchiglie, l’argento, le pecuniae, le pietre di enormi dimensioni dell’isola di Uap, e così via), esso fu il frutto interazioni volontarie tra chi comprava e chi vendeva. In origine era solo un bene tra gli altri, ma poiché particolarmente apprezzato esso cominciò ad essere usato anche come mezzo di scambio puro: da ricevere non in vista di un consumo, ma quale strumento per avere domani altri beni o anche da accumulare puntando ad investimenti futuri.

Se l’oro storicamente ha avuto successo, quindi, è perché esso è stato circondato dal ‘credito’ della gente. Si è imposto naturalmente nel mercato e, quindi, grazie alla volontà collettiva di quanti ne hanno decretato il successo. Un po’ come è successo ad esempio alle lingue, che si sono affermate in via evolutiva, senza che qualcuno le inventasse dal nulla e le imponesse. Ovviamente, l’oro è stato posseduto e scambiato nelle forme più diverse. Con l’oro si possono fare anelli e bracciali, ma anche lingotti, medaglie e altri oggetti. In considerazione della rarità e del valore di tale metallo, la forma in cui l’oro ha avuto più successo è però stata quella delle monete: piccole e talora piccolissime soldi sono state ‘coniati’ secondo regole standardizzate, così che non fosse necessario pesare ogni volta le monete scambiate. Grazie a queste caratteristiche, l’oro fu nell’ambito monetario quello che il latino ha rappresentato per secoli nelle comunicazioni tra i dotti del tempo: un mezzo di comunicazione universale.

In età medievale, ovviamente, le monete furono molte: il fiorino, il tallero, la sterlina, lo scellino e via dicendo. Ma quello che è straordinario dell’oro (come pure dell’argento, che spesso accompagnò l’oro quale moneta ‘cugina’ e di minor valore, dunque più adatta alle piccole transazioni), tutti questi denari erano in fin dei conti il medesimo, dato che ognuno era dello stesso materiale. Questo faceva sì che vi fosse un rapporto fisso e prestabilito tra le diverse monete e che i cambi erano stabili nel tempo: con grandi benefici per le transazioni.

Questo ordine monetario, però, un po’ alla volta entrò in crisi. Le ragioni sono complesse ed i maggiori dibattiti (spesso molto articoli ed astrusi) non possono essere certo sintetizzati in questa occasione. Qui può però essere utile richiamare la vicenda di due straordinari personaggi, entrambi britannici: John Gresham e John Law.

Il primo era un finanziere inglese che, nel corso del sedicesimo secolo, scoprì come le monete di nuovo conio non erano quasi più in circolazione, mentre tutti si scambiavano monete vecchie e quindi più leggere (in quanto logorate e, per questo, di valore inferiore). Da tutto ciò egli derivò quella che da allora è detta la “legge di Gresham”, in virtù della quale la moneta cattiva scaccerebbe la moneta buona, con il risultato che la moneta inflazionata prevarrebbe sulla moneta buona.

Questa legge è spesso tirata in ballo ancora oggi contro ogni ipotesi di libertà valutaria e concorrenza tra valute. L’idea che in un ordine libero vi sarebbe fatalmente il trionfo del male sul bene (della moneta leggera su quella pesante), in realtà, ha un’origine ben precisa che ci può aiutare a capire come iniziò ad entrare in crisi lo stesso sistema monetario aureo.

Come molti studiosi hanno spiegato, infatti, il prevalere delle monete ‘cattive’ era solo la conseguenza del cosiddetto corso forzoso: dell’obbligo di accettare le monete di Stato, recanti il volto del sovrano, anche quando – come allora facevano molti furbacchioni – i pezzi di metallo venivano limati ed alleggeriti (con l’obiettivo di vendere, a parte, i frammenti d’oro). Nel momento veniva introdotto un ‘valore legale’ delle monete in circolazione, le monete di 9 grammi dovevano essere considerate dello stesso valore di quelle di 10 grammi. Il risultato fu che tutti tennero per sé le seconde e pagarono gli altri con le monete usurate, dal valore inferiore. Non fu quindi la libera circolazione monetaria a far trionfare le cattive monete. Uno dei primi passi verso il disastro monetario fu invece l’introduzione del corso forzoso, che mise in crisi l’ordine economico naturale ed innescò processi inflazionistici.

Tutto questo, però, probabilmente non sarebbe bastato a minare il mondo di tradizione europea nelle sue fondamenta monetarie. Tra l’altro, contro l’azione fraudolenta di chi limava le moneta fu deciso di zigrinare il bordo delle monete, così che non fosse più possibile sottrarre impunemente la limatura d’oro.

Le difficoltà maggiori, invece, derivarono dal fatto che da tempo l’esigenza di spostarsi comodamente e senza correre rischi aveva fatto emergere la cambiale quale strumento di pagamento. L’idea era semplice: si poteva depositare da un banchiere una certa quantità di oro ricevendo in cambio un titolo di credito, il quale conteneva l’ordine di pagare una somma determinata. In tal modo, questa carta iniziò a sostituire – nella circolazione monetaria – l’oro stesso, che però continuava ad essere la vera moneta, di cui le banconote erano solo una semplice ‘rappresentazione’.

Ed è qui che entra in scena John Law, giocatore d’azzardo ed avventuriero che nel 1705 scrisse le “Considerazioni sulla moneta e sul commercio”, in cui sosteneva la possibilità di avere un denaro sganciato da ogni metallo prezioso, oro o argento che fosse, e garantito unicamente dalla presenza di attività economiche floride. La moneta di carta poteva quindi smettere di essere il mero ‘sostituto’ dell’oro e acquisire una sua totale indipendenza. Dieci anni dopo, per giunta, egli si trovò alla guida della politica economica e fiscale della Francia, la maggiore potenza economica del tempo. Applicando le proprie teorie, moltiplicò il denaro di carta e con esso riempì il paese di ‘milionari’, salvo poi porre le premesse per un crollo finanziario di dimensioni tali che egli fu costretto a fuggire. Ma se la vicenda di John Law fece questa fine, altri – dopo di lui – seppero imparare la lezione e misero a punto tecniche più sofisticate di manipolazione della moneta.

Per certi aspetti, allora, la crisi dell’oro come valuta solida ed affidabile fa il paio con la crisi dei sistemi rappresentativi medievale, tanto che si potrebbe parlare di una più generale ‘tragedia della rappresentanza’. Nell’ambito monetario, in effetti, avvenne qualcosa di simile a quello che si è visto in ambito politico, dove rappresentanti che in passato erano solo portaparola e mandatari di chi li aveva delegati, nel corso dei secoli sono riusciti ad appropriarsi in toto della volontà di quanti avrebbero dovuto difendere e hanno perfino rivendicato, con successo, un mandato libero da ogni vincolo ed impegno contrattuali.

Gli imitatori di John Law hanno fatto lo stesso, dato che il pezzo di carta che in origine doveva solo provvisoriamente sostituire l’oro (perché si trattava solo di un impegno a restituire il metallo ricevuto in deposito) finì per spodestarlo. In questo senso, si può davvero constatare come la costruzione di un ceto politico ‘rappresentativo’ e la distruzione della moneta naturale, agganciata all’oro, siano progrediti di pari passo, tanto più che l’introduzione della cartamoneta ha aperto la strada al progressivo controllo politico del sistema monetario, dell’economia, delle banche.

La storia moderna è infatti la storia di una classe politica che ha conquistato il diritto di moltiplicare il denaro, trasformando piccoli fogliettini in cartamoneta. E questo è in grado di spiegare perfettamente le più gravi inflazioni della storia: dagli assignats della Francia rivoluzionaria ai dollari svalutati dell’America dopo l’Indipendenza, fino alla Germania di Weimar ed all’Argentina degli ultimi decenni.

Quando la moneta era l’oro, invece, i politici non erano minimamente in grado di controllarla. Non potevano aumentare le risorse a loro disposizione ‘stampando’ moneta. Essi potevano certo stampare biglietti con la scritta ‘sterlings’ o ‘dollars’, ma solo dopo che un ben definito quantitativo di oro era stato collocato nei caveaux della banca che emetteva quei biglietti. Qualcuno ricorderà ancora come sulle nostre vecchie mille lire comparisse l’espressione ‘pagabili a vista al portatore’. Quella frase, da tempo, non voleva dire più nulla, ma certo era la sopravvivenza di un’età in cui le monete erano convertibili in oro. Di un’epoca durante la quale, ad esempio, un dollaro non era altro che un ventesimo di oncia del metallo prezioso.

Ancora durante l’Ottocento, d’altra parte, le società d’Europa e del Nord America dispongono di monete piuttosto solide, proprio grazie a questo permanere dell’oro. Ma tutto il Novecento è stato segnato, anche negli Stati Uniti, dalla volontà delle classi politiche di ‘liberare’ la moneta da ogni riferimento all’oro. Significativo, in tal senso, il fatto che nel 1933 Franklin Delano Roosevelt abbia deciso che possedere oro era divenuto un crimine e, soprattutto, usare l’oro come mezzo di pagamento. Sganciato il dollaro dal metallo prezioso (la relazione storica era stata 20 dollari per un’oncia), il governo americano innescò una fortissima inflazione, che trasferì risorse dai creditori ai debitori e rese persistente quella Grande Depressione da cui l’America uscirà veramente solo alla fine degli anni Quaranta. Non è sorprendente allora che il ventesimo secolo sia stato – al tempo stesso – l’età dei totalitarismi, dei Welfare State e di inflazioni vertigiose.
Il ‘secolo breve’ è stato anche l’epoca di un denaro manipolato e capace di dissolversi in breve tempo, con il risultato che molti tra di noi possono trovare in qualche baule in soffitta vecchi titoli di deposito mai ritirati in quanto del tutto erosi da inflazioni galoppanti (si pensi a quella che ha conosciuto l’Italia dalla fine degli anni Trenta alla fine degli anni Quaranta). Oggi, però, l’oro è tornato al centro di tanti interessi.

In primo luogo esso è tornato a crescere: negli ultimi due anni il prezzo dell’oro è passato da 250 dollari l’oncia agli attuali 360 circa. Il suo valore è aumentato in tal modo proprio mentre le borse di tutto il mondo crollavano (portando nella polvere montagne di risparmi).

È anche significativo che in un articolo apparso su ‘Finanza e Mercati’ negli scorsi giorni Fabrizio Russo abbia sottolineato come la Fed (la banca cenrrale americana, da moltissimi anni nelle mani di Alan Greenspan) non escluda più la possibilità di introdurre un aggancio del dollaro all’oro: non certo il gold standard classico, purtroppo, ma pur sempre un riferimento stabila in grado di ‘rafforzare’ nuovamente la moneta Usa. Se questo non dovrà succedere, d’altra parte, il mercato dovrà trovare le proprie soluzioni e in questo non è escluso che l’oro si riaffermi anche indipendentemente dalla scelte delle banche centrali.

Interessanti, in tal senso, sono le recentissime affermazioni di uno dei maggiori esponenti dell’economia liberale, Hans Sennholz (oggi professore emerito al Grove College): “Nessuna altra moneta, nazionale o internazionale, può ragionevolmente prendere il posto del dollaro americano. Esse hanno sofferto seriamente per la stessa malattia ideologica, poiché tutte sono la creazione dell’autorità e di un interesse di tipo politico. Qualunque cosa si possa pensare dell’oro, esso permane sempre sullo sfondo, invitandoci ad usarlo come denaro, così come è stato fin dall’alba della civiltà”. 

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