Giorgio Bianco, CONTRO I DEMOCATASTROFISTI MEGLIO FARE FIGLI

Giorgio Bianco, CONTRO I DEMOCATASTROFISTI MEGLIO FARE FIGLI

Il Domenicale, sabato 23 agosto 2003

“Bisogna ridurre le nascite, altrimenti il mondo va in rovina”. Correva l’anno 1798 quando il pastore anglicano Thomas Robert Malthus scrisse An Essay on the Principle of Population as its Effects the Future Improvement of Society, più noto come Saggio sul principio di popolazione. Nato nel 1776 da una famiglia di proprietari di campagna del Surrey, e cresciuto in un ambiente familiare culturalmente assai vivace (il padre Daniel era convinto illuminista e intratteneva cordiali rapporti con David Hume, Jean Jacques Rousseau e William Godwin), Malthus era profondamente, incrollabilmente convinto che la crescita demografica fosse il peggiore dei mali, e volle pubblicare quel saggio per manifestare la sua opposizione ad una legislazione, varata nel 1795, che accordava un sussidio a quanti non ricevevano un salario sufficiente per vivere. Questo aiuto veniva finanziato con tasse a carico degli abitanti di ogni parrocchia (una piccola forma di Stato sociale ante litteram).

Malthus considerava questa legge una follia, perché aiutare i poveri avrebbe significato un incremento spropositato di nuove nascite, e nel suo Saggio espose la nota teoria secondo cui, mentre la produzione alimentare cresce seguendo una progressione aritmetica (1, 2, 3, 4, 5, 6… ), la popolazione cresce seguendo una progressione geometrica (2, 4, 8, 16… ). Per questo, l’umanità si sarebbe ridotta alla fame se non avesse immediatamente fermato la crescita della popolazione. La sua convinzione che ogni atto utile a migliorare la condizione delle classi più disagiate fosse contraria alle leggi di Dio e di naturalo spinse addirittura a raccomandare ogni azione che favorisse la riduzione e l’eliminazione dei poveri.

In oltre due secoli, le sue teorie e le sue raccomandazioni sono state più volte raccolte da zelanti seguaci: per esempio, quando nel 1853 il Parlamento britannico cercò di diffondere il vaccino contro il vaiolo, i seguaci di Malthus riuscirono a bloccare la disponibilità di fondi per l’attuazione della legge. In tempi più recenti, il duca Filippo di Edimburgo, fondatore e presidente del WWF, nel 1988 ha dichiarato: “Nel caso che io rinasca, mi piacerebbe essere un virus letale, così da contribuire a risolvere il problema della sovrappopolazione”.

Nel 1993, l’americano David Foreman, redattore della rivista Earth First e dirigente del gruppo ecologista Deep Ecology, ha sostenuto che “L’umanità rappresenta il cancro del mondo vivente [metafora già usata nel 1969 dalla celebre scrittrice statunitense Susan Sontag, ndr.]. L’AIDS non è una maledizione, esso deve essere salutato come un rimedio naturale per ridurre la popolazione del pianeta”. Similmente, Ann Torphy, sempre su Earth First: “Come ambientalisti radicali, riteniamo che l’AIDS non sia un problema ma una necessaria soluzione. Parafrasando Voltaire: se questa epidemia non esistesse, gli ambientalisti dovrebbero inventarla”.

In forma meno outrée e più ammantata di “scientificità”, a riproporre le teorie denatalistiche maltusiane e a far risuonare l’”allarme sovrappopolazione” sono stati autori assurti per questo a fama mondiale, come Lester Brown, presidente del World Watch Institute e coautore, nel 1993, del volume Beyond Malthus: Nineteen Dimensions of the Population Challenge, Paul Erlich, autore, nel 1968, di The Population Bomb, immediatamente divenuto best seller, e il Club di Roma di Aurelio Peccei, che nel 1972 commissionò ad un gruppo di studiosi l’altrettanto noto The Limit to Growth, commissionato dal Club di Roma di Aurelio Peccei a Dennis e Donella Meadows, e assurto ad autentica bibbia del movimento ambientalista, tradotto in venti lingue e diffuso in nove milioni di copie.

Naturalmente non sono mai mancate, nei confronti del pastore della Chiesa d’Inghilterra, voci di dissenso, e negli ultimi anni ha preso corpo un vero e proprio movimento di scienziati, economisti, militanti e pubblicisti fautori di una visione del mondo e di un ecologismo improntati all’ottimismo, ad una maggiore fiducia nella scienza e nella tecnologia, e diffidenti nei confronti dei lugubri – e spesso interessati – “profeti di sventura”. È contro questa cultura, fiduciosa nelle capacità dell’uomo di affrontare e risolvere i problemi dell’ecologia e dello sviluppo (l’economista e teologo americano Michael Novak ha parlato, in contrapposizione all’ecologismo “verde”, di “ambientalismo blu”, come colore della speranza) che Giovanni Sartori, celeberrimo politologo e editorialista del “Corriere della Sera”, e Gianni Mazzoleni, giornalista, hanno realizzato un volume a quattro mani, La Terra scoppia. Sovrappopolazione e sviluppo, che nella prima parte raccoglie una serie di editoriali di Sartori, nella seconda, curata da Mazzoleni, sviluppa degli “approfondimenti” sul tema.

Insofferenti di osservazioni come quella del professor Gary Becker, premio Nobel per l’Economia nel 1992, secondo cui “La teoria maltusiana non è sostenuta da nessuna prova, anzi si sono verificate alcune circostanze che dimostrerebbero il contrario e cioè che la crescita della popolazione è stata fondamentale per lo sviluppo economico”, Sartori e Mazzoleni ci informano che “Queste sciocchezze spiegano questo libro. Ci sentiamo in dovere di contrastarle una a una”.

In che modo, lo si vedrà nelle righe che seguono. Un piccolo antipasto: uno dei capitoli del volume che intende demolire mattone per mattone l’”ecologismo ottimista” è intitolato: “Siamo più di 6 miliardi e lassù Malthus se la ride”. Forse Sartori e Mazzoleni, oltre ad aver capito tutto delle angustie di questa Terra, sono anche molto ben informati su quanto accade in Cielo, ma a noi viene il sospetto che se davvero Malthus ride, è probabile che rida di se stesso, visto che, come ha osservato Antonio Gaspari, giornalista e saggista esperto di questi temi, se i suoi calcoli fossero stati esatti la popolazione mondiale attuale dovrebbe essere non di 6, ma di 256 miliardi di individui!

CHE COSA SONO DAVVERO LE “RISORSE”?

Fra i principali testi di riferimento di Sartori e Mazzoleni figura proprio il già citato The Limit to Growth: la tesi di fondo del libro era che la crescita della popolazione, collegata ai consumi sempre crescenti, avrebbe esaurito le risorse del pianeta in pochi anni: ai livelli di consumo del 1972, l’oro si sarebbe esaurito nel 1981, il mercurio nel 1985, lo stagno nel 1987, lo zinco nel 1990, il petrolio nel 1992, rame, piombo e gas nel 1993. Previsioni totalmente sballate, come ognuno può constatare, e come confermato dal World Resource Institute, il quale ha calcolato che i prezzi di tutti i metalli e i minerali, tra il 1970 e il 1988, sono calati del 40%.

Si tratta solo di un esempio, certo uno dei più clamorosi, delle cantonate prese dai “profeti di sventura”, di cui in questo speciale si fornisce una breve campionatura. Ma allora, non sarebbe opportuno domandarsi, per prima cosa, se le continue smentite della storia a tutte le profezie di sventura propagate nel corso di secoli non rappresentino già di per sé un forte indizio per dubitare del carattere scientifico delle teorie dei catastrofisti? Se, come insegnano gli economisti, la cartina di tornasole della scarsità o dell’abbondanza di un bene sono i prezzi, dovremmo concluderne che le risorse stanno diventando, anno per anno, non più scarse, ma più abbondanti! In realtà, questo apparente paradosso è facilmente spiegabile: la tesi secondo cui le risorse sarebbero limitate e in via di esaurimento denota infatti un sostanziale fraintendimento del concetto di stesso di “risorsa”. “Gli ecologisti – ha scritto il giornalista Rodolfo Casadei – intendono le risorse come una quantità fissa, ma questo è sbagliatissimo, perché il concetto di risorsa non è definito dalla natura, ma dalla tecnologia che può essere utilizzata”. Ne sono esempi tipici il carbone, pochissimo usato prima dell’invenzione del motore a vapore, e il petrolio, che prima dell’avvento dei motori a scoppio era per lo più considerato una passività, una melma inutile e inquinante. Per non parlare del silicio, che prima dell’avvento dell’informatica era nulla più che un insignificante materiale sabbioso. Tutto questo mette radicalmente in discussione i dogmi di Sartori, secondo il quale se la “causa primaria” dei problemi del pianeta è l’incremento demografico, la “più importante causa concomitante” è la tecnologia, “che ci consente di vivere e di sopravvivere in modo innaturale, oltrepassando i limiti imposti dalle risorse naturali”.

In realtà, come si è appena visto, è proprio il progresso scientifico e tecnologico a consentire di perpetuare e moltiplicare la disponibilità di risorse. Innanzitutto, la tecnologia può supplire alla scarsità semplicemente agevolando la scoperta di riserve sconosciute in precedenza, per esempio attraverso l’affinamento delle tecniche geologiche, oppure consentendo lo sfruttamento di risorse precedentemente troppo costose da utilizzare. In altri casi, il progresso può consentire un utilizzo più razionale della risorsa scarseggiante, o la sostituzione con un’altra meno costosa. Accade così che la tecnologia e la produzione industriale, anziché esaurire le risorse, come pretendono i catastrofisti, creano risorse che prima non esistevano, o trasformano in risorse materiali prima inutilizzati, come nel caso, che si è detto, del petrolio o del silicio.

La stragrande maggioranza delle risorse, quindi, non sono tali di per sé, ma perché esiste una tecnologia che le utilizza. E perché esistano le tecnologie occorrono idee, e le idee, va da sé, le hanno gli uomini: più uomini, più idee, più risorse. Si comprende bene, allora, perché l’economista libertario Julian L. Simon abbia intitolato il suo libro più importante The Ultimate Resource, la risorsa decisiva, il bene supremo, ovvero l’uomo.

“CONDANNATI ALLA FAME” : MA DA CHI ?

Ma la questione che a tutti sta più a cuore, naturalmente, è quella della miseria, della sottoalimentazione e della morte per fame. E da questo punto di vista, la verità – quella del professor Sartori – è assolutamente semplice: “la fame (e ancor più la sete) sta vincendo, e vincerà sempre più, perché ci rifiutiamo di ammettere che la soluzione non è di aumentare il cibo ma di diminuire le nascite, e cioè le bocche da sfamare”. Ma se la produzione di cibo fosse un problema irrilevante, allora là dove ci sono meno bocche da sfamare la penuria e la morte per fame dovrebbero essere sconosciute.

Nessun’area del Terzo Mondo è più significativa, in questo senso, dell’Africa subsahriana, rispetto alla quale Mazzoleni propone un’analisi tipicamente neomaltusiana: “in Africa nell’ultimo mezzo secolo, malgrado le spesso spaventose condizioni umane, la popolazione è cresciuta di 3,6 volte (360 per cento), quasi quanto è cresciuta in un intero secolo la popolazione mondiale. E le previsioni sono di una ulteriore impressionante crescita. […] Il vero maggiore deficit di quell’Africa è di conoscenza demografica e contraccettiva”. La soluzione, ovviamente, non può essere che una, sempre la stessa: pillole, profilattici, sterilizzazioni ed eventualmente aborti.

Com’è possibile non tenere minimamente conto che, dell’area in questione, fanno parte Paesi come la Repubblica Centrafricana (6 abitanti per kmq) o il Gabon (5 abitanti per kmq), che rientrano tuttora fra quelli con la più bassa densità di popolazione al mondo?

E soprattutto, è così assodato che “la soluzione non è di aumentare il cibo “? Si può davvero affrontare seriamente il problema della fame senza spendere una parola su quei fattori sociali e culturali endogeni, in primis proprio i modi di produzione, che fanno dell’Africa, tutt’altro che sovraffollata, un continente moribondo?

Come ha scritto l’africanista Anna Bono, in La nostra Africa. Cronaca di una catastrofe annunciata, “mentre altre culture hanno elaborato tecniche sempre più complesse ed efficaci per trarre dalla terra risorse sicure e abbondanti, l’Africa sembra essersi fermata all’età del ferro. Per millenni gli Africani hanno lavorato suoli sempre più poveri di humus senza effettuare opere di bonifica, di raccolta e di canalizzazione delle acque piovane, senza nessun aiuto animale né meccanico, utilizzando attrezzi rudimentali – la zappa a manico corto, il bastone da scavo e dei grossi coltelli – poco efficaci”. Modi di produzione a dir poco arcaici, i quali si inseriscono in una struttura di rapporti sociali che si basano sullo sfruttamento della forza lavoro di donne e bambini, e consentono alla parte potenzialmente più produttiva della società – i maschi adulti – di lavorare poco o nulla. In queste economie a carattere precapitalistico e comunitario, infatti, i figli sono considerati proprietà del padre, il quale ha diritto di disporne a piacimento, e, in particolare, di farli lavorare non appena ne sono in grado. Da sempre, in quelle società, il lavoro è dei bambini: “Onore e vanto di un uomo africano, per esempio – scrive Anna Bono -, è diventare ‘anziano’, uno status sociale che acquisisce allorché i figli maggiori assumono l’onere di provvedere ai bisogni materiali della famiglia in vece sua. In Africa nessuno biasima quindi un padre inoperoso che vive del denaro guadagnato dai suoi figli, anche se per ciò essi non vanno a scuola o smettono di studiare prima di aver conseguito un titolo di studio. In società del genere che i bambini lavorino è ritenuto giusto e necessario: per questo vengono messi al mondo”.

C’è da stupirsi se, ammesso e non concesso che i tassi di crescita demografica siano il vero problema e le pratiche contraccettive la soluzione, queste non attecchiscano minimamente in una società gerarchizzata in questo modo? La realtà è che fino a quando l’Africa non conoscerà un radicale cambiamento culturale, non vi saranno per essa vere vie di salvezza, come dimostrano i clamorosi fallimenti della cooperazione internazionale allo sviluppo. E tantomeno si potrà riporre speranza nello “sviluppo sostenibile” così come lo intendono Sartori e Mazzoleni, incentrato su programmi di riduzione della natalità da tempo sperimentati a spese del contribuente occidentale, e privi di risultati apprezzabili, perché non incidono sulle cause reali del sottosviluppo.

PERCHÉ RIDURRE IL NUMERO DEI COMMENSALI?

Se fame e sottosviluppo fossero davvero una conseguenza diretta della “sovrappopolazione”, come logica conseguenza i Paesi più densamente popolati dovrebbero essere anche quelli più affamati, e viceversa. Un semplice confronto tra i redditi pro capite dei Paesi meno densamente popolati e quelli più affollati fa giustizia di questa equazione all’apparenza così autoevidente. Ma ovviamente, la questione è più complessa: cosa dimostra che una situazione in cui il tasso di fertilità sia inferiore al livello di ricambio generazionale (2,1 figli per donna) sia una causa diretta di benessere e di migliore qualità della vita? Ci sono esempi storici di questo? Chi batte e ribatte sul tasto dell’inflazione demografica non ha mai riflettuto sul fatto che un mondo di 5,7 miliardi di abitanti, pur con tutti i suoi problemi, è più ricco di quello del neolitico? Non ha mai pensato che, dal 1960 ad oggi, la popolazione mondiale è quasi raddoppiata, ma questo non si è tradotto in un disastro, bensì in un generalizzato sviluppo, in un aumento della qualità e delle aspettative medie di vita?

La popolazione mondiale nel suo complesso ha conosciuto, soprattutto a partire dal XVIII secolo, un’espansione senza precedenti, ed è cresciuta di sei volte negli ultimi 200 anni: in termini strettamente statistici, un’autentica esplosione demografica, certo, ma chi si sentirebbe di sostenere che essa abbia lasciato l’umanità in uno stato di povertà e miseria, e che, al contrario il boom demografico non è coinciso con una crescita della produttività, della produzione, della ricchezza, della sanità come mai nella storia dell’uomo? La realtà che sta sotto gli occhi di tutti è che l’uomo attualmente vive più a lungo, mangia meglio, produce e consuma di più che in ogni altro tempo della storia.

Sartori, lamentando che i “popoli di Seattle” (allora i no global o new global erano ancora chiamati così) si oppongano “a valanga quasi a tutto, ma non (è quasi l’unica eccezione) alla crescita demografica”, includendo nell’opposizione anche gli organismi geneticamente modificati, osserva che “non ha nessun senso opporsi ai cibi transgenici (ai cosiddetti Ogm) se non ci si oppone al tempo stesso all’eccesso di popolazione. Perché la realtà delle cose è che senza i ‘cibi di Frankenstein’ (soia, pomodoro, mais, grano, riso geneticamente modificati) il Terzo Mondo è sempre più destinato alla povertà”. Cosa dà a Sartori tanta certezza? Mistero, visto che, ancora una volta, Sartori si guarda bene dall’appoggiarsi a uno straccio di dato scientifico a supporto delle sue lapidarie sentenze, ritenendo forse che il suo cognome sia sufficiente guarentigia di affidabilità. Eppure, negli anni 1970-75 (quando la polemica sugli OGM era ben lungi da venire) l’aumento della produzione alimentare nei paesi in via di sviluppo è stata del 3%, a fronte di una crescita della popolazione dl 2,4%. Negli anni 1987-1992, l’aumento della produzione di cibo è stato del 4,4%, e la crescita della popolazione dell’1,9%. Ancora: nel 1950 il mondo produceva 692 tonnellate di grano e la popolazione mondiale era di 2,5 miliardi di persone. Nel 1992, la produzione di grano ha raggiunto la cifra di 1.592 milioni di tonnellate, e la popolazione mondiale è passata a 5,7 miliardi di persone! Ossia, di fronte ad una popolazione più che raddoppiata, la produzione di grano è quasi triplicata.

Molti esperti hanno calcolato che, anche senza ulteriori progressi delle tecniche agricole, sarebbe possibile sfamare un numero di persone che eccede di varie volte quello attualmente presente sul pianeta. Già nel 1974 Colin Clark, ex direttore dell’Istituto di economia agricola dell’Università di Oxford, calcolava che con le tecniche produttive di allora, e utilizzando soltanto la metà dei terreni fertili presenti sulla superficie terrestre, sarebbe stato possibile nutrire con una dieta di tipo “americano” (particolarmente ricca di calorie, quindi) 35,1 miliardi di persone. Il dottor Paul Waggoner, a propria volta, ha calcolato che già oggi 10 miliardi di persone potrebbero essere nutrite adeguatamente se solo si utilizzassero i metodi più moderni ed efficienti nelle fattorie già esistenti. Non è certo nostra intenzione, qui, discutere della opportunità o perniciosità del consumo degli organismi geneticamente modificati. Ciò che ci basta evidenziare, è che tanto gli studi teorici quanto l’esperienza empirica dimostrano come un impiego su larga scala delle tecniche agricole esistenti sarebbe più che sufficiente a sfamare un numero di individui che eccederebbe di gran lunga quello già presente sulla faccia della terra.

Lo studio preparato nel 2001 dalla Population Division del Department of Economic and Social Affairs dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, intitolato Population, Environment and Development conferma che “la crescita della popolazione nel ventesimo secolo è stata straordinaria, si è passati da 1,6 a 6,1 miliardi di persone”, ma specifica anche che “l’80% della crescita è avvenuta dopo il 1950”, e, soprattutto, che “la rapida crescita demografica dipende soprattutto dalla riduzione della mortalità, specialmente nei Paesi meno sviluppati, dove dal 1950 l’aspettativa si è allungata in media di più di 20 anni”.

Assorbito com’è dallo sforzo creativo di coniare insulti più o meno sottili all’indirizzo di chi non condivide il suo alto magistero, il professor Sartori si è evidentemente dimenticato di porsi una domanda fondamentale: la popolazione aumenta perché si nasce di più o perché si muore di meno? Meglio: dato per scontato il primo fattore (sebbene i Paesi occidentali siano notoriamente scesi sotto la crescita zero, e quelli in via di sviluppo stiano conoscendo un forte calo della fertilità, la tendenza alla crescita, per quanto rallentata, è ancora un dato di fatto), il secondo va preso in considerazione? E non avrà ragione l’ONU nel considerarlo preponderante? Non avrà ragione, cioè, nel sostenere che gli individui aumentano in primo luogo perché vivono di più, e se vivono di più c’è da supporre che sia perché vivono meglio, più nutriti, più sani, meglio vestiti, più istruiti, meno soggetti a malattie ed epidemie, in condizioni ambientali migliori e più salubri?

E ancora: se ha ragione l’ONU nel dire che, a partire dagli anni Cinquanta, l’aspettativa di vita nei paesi poveri ha fatto passi avanti di quindici-vent’anni grazie ai progressi dell’agricoltura, dei servizi igienici e della medicina, questo è da considerarsi una sconfitta o non rappresenta piuttosto una delle più grandi, forse la più grande conquista umana della storia? Il fatto che, diecimila anni fa, solo 4 milioni di persone riuscissero a mantenersi in vita, mentre nel secolo scorso erano un miliardo, e oggi 6,1, non dimostra forse che, come ha scritto Julian Simon, “l’aumento della popolazione rappresenta la nostra vittoria sulla morte”?

È stato sempre un funzionario ONU a dire che “la crescita demografica non è dovuta al fatto che la popolazione si riproduceva come conigli, bensì perché hanno smesso di morire come mosche”. Ancora agli inizi del XX secolo, quattro bambini su dieci morivano prima di aver raggiunto i cinque anni di età. Duecento anni fa, l’aspettativa di vita era inferiore ai trent’anni. Oggi supera i 65. Un calo verticale della mortalità, legato ad un incremento della disponibilità alimentare, alla scoperta di nuovi medicinali e ad un più facile accesso a questi, all’acqua potabile, alle misure igienico-sanitarie.

Ma tutto questo al professor Sartori non basta: “il maggiore sviluppo deve essere neutralizzato da una minore popolazione”. Dal canto suo, Mazzoleni, pur riconoscendo che lo standard di vita è aumentato con l’incremento della popolazione mondiale, non spende una parola sul rapidissimo calo della mortalità che ha attraversato il XX secolo, e sostiene che alla tecnologia “occorre tempo… Nel frattempo di quanto sarà cresciuta la popolazione terrestre?… Se l’aspettativa di vita è indubbiamente aumentata, proprio questo dilata il problema demografico aggiungendosi all’eccesso di prolificità [corsivo nostro]”. Insomma, non c’è verso: a Sartori e Mazzoleni il pianeta va stretto, e siccome siamo in troppi andiamo sfoltiti con decisione.

Drastica limitazione delle nascite, dunque. Strano, però. che a questo scopo Sartori si limiti a propugnare la diffusione delle pratiche contraccettive e dell’aborto (legittimato con argomentazioni di questa profondità: “Se uccido un girino, uccido un girino, e non una zanzara. Se il girino mangia una larva di zanzara uccide una larva, non una zanzara. Se io bevo un uovo di gallina, io non uccido una gallina. E così via. E dunque non ha alcun senso sostenere che una interruzione di gravidanza è assassinio di un essere umano”), e non abbia preso in considerazione le preziose indicazioni tecniche che nel lontano 1952 (quando il grande innalzamento della vita media era ancora agli inizi) Giovannino Guareschi già andava additando.

Sollecitato da un lettore a prendere posizione sull’attacco del medesimo quotidiano milanese contro la “superpopolazione”, sul n. 36 di “Candido” Guareschi rispose che non accettava di polemizzare né di discutere sull’argomento, con lo stesso spirito con cui si sarebbe rifiutato di discutere dell’esistenza di Dio: “Per noi Dio esiste”. E tuttavia, non mancò di rilevare la “faciloneria” con cui il “Corriere della Sera” affrontava la questione, “Senza cioè spiegare quali sono le cause che hanno portato la popolazione italiana dai 35 milioni di cinquantacinque anni fa ai 46 milioni di oggi”. Il giornalista e scrittore emiliano osservava che per affrontare seriamente l’aumento di popolazione, prima ancora di controllare le nascite, si sarebbe dovuti ricorrere ad una serie di misure preliminari, tra le quali suggeriva: incremento della mortalità infantile, straordinariamente ridotta dal progresso scientifico e sociale; incremento della mortalità degli adulti, e ritorno alla situazione di appena trent’anni prima, quando una polmonite, una bronchite o un’appendicite erano nel 90% dei casi mortali, e la tubercolosi portava senza fallo alla tomba; eliminazione della penicillina e della streptomicina, ma anche di sostanze come il DDT, per ripristinare malattie come il tifo petecchiale; divieto di costruire edifici antisismici, in modo che le popolazioni di grossi centri urbani potessero essere eliminate dai terremoti; eliminazione dei pompieri e degli argini, al fine di incrementare gli incendi e le inondazioni; incremento della mortalità senile in modo da accorciare la media della vita umana. Ci era arrivato Guareschi 51 anni fa: come mai non ci ha pensato oggi un’autorità del calibro del professor Sartori?

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