Piero Vernaglione – PROPRIETA’ INTELLETTUALE: E’ UN DIRITTO?

Piero Vernaglione – PROPRIETA’ INTELLETTUALE: E’ UN DIRITTO?

Quaderni Radicali, n. 86/2004

Lo sviluppo di Internet, con i connessi problemi di “pirateria” musicale o cinematografica, ha concentrato l’attenzione di esperti ed opinione pubblica sulla questione della proprietà intellettuale. Su questo tema la cultura libertaria non ha espresso nel tempo una posizione univoca. In questo articolo verranno esaminati i diversi orientamenti manifestati dagli autori appartenenti a tale corrente di pensiero.

Preliminarmente è opportuno delimitare con precisione l’oggetto dell’analisi. La proprietà intellettuale riguarda beni intangibili quali le creazioni della mente. Qui si fa riferimento in particolare a quattro diverse modalità, secondo le classificazioni accolte negli ordinamenti giuridici contemporanei. Esse sono: i diritti d’autore, i brevetti, i marchi e i segreti industriali. I primi riguardano prodotti della creatività umana quali scritti (libri, articoli), film, canzoni, programmi per computer ecc. I secondi sono collegati a invenzioni che si traducono in strumenti meccanici o in processi produttivi. I marchi sono simboli, disegni, parole o frasi che identificano i beni o i servizi di un’azienda. Infine i segreti industriali concernono formule o informazioni che garantiscono all’impresa un vantaggio competitivo. In che cosa consiste esattamente il diritto riservato all’autore dalle legislazioni contemporanee? Prendendo ad esempio lo scrittore di un romanzo, egli in sostanza ha diritto 1) su ogni versione fisica del suo lavoro (libro) costituito da quella data sequenza di parole 2) di vendere il libro e incassarne (in tutto o in parte, a seconda degli accordi con eventuali editori) i proventi e 3) che l’acquirente non faccia una copia di esso (da cui il termine copyright: solo l’autore può copiare il suo stesso lavoro).

L’acquirente possiede solo la copia fisica del libro, quelle date pagine e quel dato inchiostro, non “il romanzo” in se stesso. Per quanto riguarda invece i brevetti, l’inventore ha diritto o di sfruttare in esclusiva la sua invenzione o di essere remunerato da altri soggetti che desiderassero utilizzarla.

Come detto, i libertari sull’argomento si dividono. Favorevoli ai diritti di proprietà intellettuale sulla base di premesse giusnaturaliste sono esponenti come Galambos, Schulman, Kelley e Rand (1), mentre una difesa su un fondamento utilitarista è svolta da David Friedman (e, nell’ambito del liberalismo, da Posner). Contrari sono invece autori quali Kinsella, McElroy, Palmer, Lepage e Bouckaert. Rothbard, pur collocabile fra i secondi, ammette una forma limitata di proprietà intellettuale come conseguenza del concetto di “fascio di diritti”, come si vedrà più avanti.

Coloro che difendono la proprietà intellettuale seguendo l’approccio dei diritti, giustificano la propria posizione partendo dal tradizionale assioma di autoproprietà: la mente appartiene all’individuo, e dunque appartengono ad esso anche i prodotti della mente, le creazioni intellettuali. I libertari utilitaristi invece ritengono che la protezione dei diritti degli ideatori incentivi una maggiore quantità di invenzioni artistiche e tecniche, che si riverbera positivamente sulla ricchezza e l’utilità complessive.

I libertari contrari al riconoscimento della proprietà intellettuale fondano la propria posizione sulla distinzione fra beni tangibili e intangibili con riferimento alla scarsità.

Sui beni tangibili, asseriscono tali autori, vanno creati diritti di proprietà perché tali beni sono scarsi (fisicamente limitati). A seguito di tale caratteristica, se non vi fossero chiari confini di proprietà fra beni, sorgerebbero conflitti fra gli uomini per il loro uso. Per svolgere questa funzione, i diritti di proprietà devono essere visibili e giusti. Visibili nel senso che devono essere oggettivi, cioè accertabili senza ambiguità. Giusti nel senso che devono rispettare il criterio di assegnazione lockiano del “primo occupante”. I diritti di proprietà intellettuale invece non riguardano risorse scarse e non sorgono sulla base del criterio del primo occupante.

Esaminiamo il primo aspetto. Le idee non sono scarse: «se io invento una tecnica per raccogliere il cotone, il fatto che tu raccolga il cotone con questa tecnica non comporta che la sottrai a me. […] Il tuo uso non esclude il mio uso» (2), non c’è conflitto. Lo stesso si può dire per il diritto d’autore: «se tu copi un libro che ho scritto io, io ho ancora il libro originale (tangibile), e “ho” anche la sequenza di parole che costituiscono il libro» (3). Le opere d’autore non sono scarse come può esserlo un appezzamento di terreno.

Invece, continuano questi autori, è proprio la creazione di un diritto di proprietà sulle idee a creare artificialmente una scarsità dove prima non esisteva. Brevetti e diritti d’autore danno vita a monopoli non giustificati. I diritti di proprietà intellettuale danno al creatore diritti parziali di controllo (dunque lo rendono coproprietario) sulla proprietà di ogni altro individuo, perché egli può proibire loro di svolgere certe azioni con la loro proprietà: ad esempio, l’autore X può impedire a Y di scrivere una certa sequenza di parole sulle sue (di Y) pagine con il suo inchiostro.

I libertari che sostengono questo punto di vista ritengono che l’equivoco nasca dal concetto di “creazione”. Il criterio per l’acquisizione della proprietà non è la “creazione”, bensì l’occupazione di alcune cose tangibili, trasformando le quali si produce magari qualcosa di nuovo. Utilizzando l’esempio proposto da Kinsella (4), se io forgio una spada, ho prima prelevato le materie prime necessarie sotto terra; dunque sono proprietario di quelle materie prime. Successivamente costruisco la spada; la spada è mia perché erano miei i fattori produttivi, non c’è bisogno di ricorrere al fatto della “creazione” per giustificare la proprietà della spada. La conferma di ciò è che se io costruisco la spada con i tuoi metalli, non sono il proprietario della spada. La creazione non è una condizione né necessaria né sufficiente per la proprietà; il ruolo cruciale è svolto dalla “prima occupazione”.

Vi è poi una seconda obiezione rivolta ai sostenitori della proprietà intellettuale. Le leggi vigenti proteggono solo certi tipi di creazioni; ma la distinzione tra quelle meritevoli di protezione e quelle che non lo sono è necessariamente arbitraria. Ad esempio, le verità filosofiche o matematiche non vengono protette dalle leggi attuali, in base al tacito criterio di ragionevolezza secondo cui, se ogni nuova frase o verità filosofica fossero considerate proprietà del suo creatore, gli scambi ed ogni relazione sociale verrebbero paralizzati. Per questa ragione i brevetti possono essere riconosciuti solo per le “applicazioni pratiche” delle idee ma non per le idee più astratte o teoretiche. La Rand concorda con questo diverso trattamento, distinguendo tra scoperta e invenzione, essendo la prima non brevettabile, la seconda sì. A suo avviso, infatti, una scoperta rappresenterebbe solo lo svelamento di una legge di natura già esistente, non creata dallo scopritore. Ma, obiettano i critici, la distinzione fra scoperta e invenzione non è sempre chiara. Infatti, anche nel caso delle invenzioni, l’inventore non crea materia nuova bensì la manipola e/o la riassembla in accordo con le leggi fisiche. Dunque, perché un ingegnere dovrebbe essere remunerato e un fisico no? Naturalmente si potrebbe risolvere il problema non introducendo alcuna distinzione e considerando tutto proprietà intellettuale, ma si arriverebbe, come si è già visto, alla paralisi degli scambi, o alle assurdità alla Galambos, che metteva un nichelino in una scatola ogni volta che pronunciava la parola “libertà” per pagare la royalty ai discendenti di Thomas Paine, ritenuto l’“inventore” del termine (5).

Rothbard era disposto a tollerare una limitatissima forma di proprietà intellettuale, in relazione al suo argomento del “fascio di diritti” e della relativa “riserva” di essi (6). Su una singola risorsa tangibile possono essere distinti più diritti. Come il proprietario di un terreno può garantire l’estrazione di petrolio ad una compagnia ma tenere per sé i diritti sulla superficie, così l’inventore di una nuova trappola per topi può vendere il diritto alla proprietà per gli acquirenti ma non il diritto di riprodurla (“riserva di diritti”). Anche le terze parti che a loro volta acquistano o ricevono in regalo il bene, pure se non hanno sottoscritto un contratto con l’inventore, sono vincolate da tale limite perché “nessuno può acquisire un titolo di proprietà più grande di quello già contenuto in ciò che gli è stato trasferito” .

Kinsella replica ribadendo gli argomenti sopra illustrati: l’errore commesso dai sostenitori della proprietà intellettuale, cioè di centrare tutto sulla creazione, discende dal fatto di focalizzare l’attenzione sul lavoro come mezzo per occupare le risorse prive di proprietario. Ma è l’occupazione, non il lavoro, l’atto che rende proprietà le risorse esterne. Se ci si concentra sull’occupazione, anziché sul lavoro, come chiave dell’homesteading, non c’è bisogno di porre la creazione come fonte dei diritti di proprietà. Tra l’altro, concludono questi autori, il lavoro è un tipo di azione (è il modo in cui i corpi agiscono nel mondo), non una cosa oggetto di proprietà da parte dell’individuo che lo esegue; un’azione non è “appropriabile”.

Va precisato comunque che Rothbard era recisamente contrario ai brevetti. Egli riteneva che in un mercato libero le tradizionali norme penali fossero sufficienti a garantire il diritto di proprietà: se ad una persona vengono prelevati, da casa sua o dal suo ufficio (cioè rubati), un suo progetto o un suo nuovo bene, egli è già protetto dalla norma che vieta il furto. Non vi è altra protezione legittima (7).

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Note

(1) Fra i precursori del libertarismo moderno, Spooner e Spencer hanno difeso la proprietà intellettuale.

(2) S. Kinsella, “Against Intellectual Property”, in Journal of Libertarian Studies, vol. 15, n. 2, primavera 2001, p. 22.

(3) Ibidem.

(4) Ivi, p. 27.

(5) Una terza obiezione riguarda l’arbitrarietà dei termini temporali stabiliti. Perché 20 anni per i brevetti e 70 per i diritti d’autore, e non 19 o 71? Affermare che 19 o 71 sarebbero troppo poco o troppo non ha più valore che affermare che il prezzo di un litro di latte è troppo alto o troppo basso. Per quanto riguarda la durata, estenderla all’infinito comporterebbe, con il passare dei decenni e dei secoli, restrizioni sempre più insopportabili sugli atti che le persone possono compiere; ad esempio, «nessuno potrebbe costruire – o anche usare – una lampadina senza prima ottenere il permesso dagli eredi di Edison» (S. Kinsella, cit.). Infine le critiche rivolte all’approccio utilitarista sono del seguente tenore: gli studi econometrici non forniscono conclusioni nette a favore della tesi del maggior benessere collettivo; forse potrebbero determinarsi più innovazioni se tali leggi non esistessero; forse le imprese impiegherebbero più risorse in ricerca e sviluppo se non dovessero spenderle nell’acquisto dei brevetti; o avrebbero maggiori incentivi a innovare se non potessero contare su un monopolio di venti anni sulle loro invenzioni.

(6) Cfr. M.N. Rothbard, L’etica della libertà (1982), Liberilibri, Macerata, 1996.

(7) M.N. Rothbard, Power and Market, Institute for Human Studies, Menlo Park, CA, 1970.

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