Novello Papafava – ECONOMIA AUSTRIACA E NEOCLASSICA: UN CONFRONTO

Novello Papafava – ECONOMIA AUSTRIACA E NEOCLASSICA: UN CONFRONTO

Relazione tenuta al Seminario Rothbard
4 Aprile 2005, Ore 17:00
Fondazione De Ponti
Piazza Castello n.23
Milano

Vi esporrò un elementare parallelo, di metodologia ed alcuni risultati teorici, tra la Scuola austriaca di economia e la Scuola neoclassica contemporanea prevalente. Mentre non vi è molto disaccordo sul fatto che l’economia indaga sulla legge (nomos) di una corretta amministrazione delle risorse della casa (oikía), vi sono invece dispute sul metodo di questa indagine, e il metodo è determinante poiché prefigura esiti assai diversi. Oggi gli economisti ortodossi sono divisi in molte scuole di pensiero: i Monetaristi, i neo-keynesiani, la Scuola delle aspettative razionali, la Scuola di Chicago, la Scuola della Public Choice, gli studiosi di teoria dei giochi, le varie branche della Supply Side, e così via. Approssimando grossolanamente, però, li si può accomunare da un punto di vista metodologico, e denominarli “neoclassici”. Vi è invece un modo del tutto alternativo di guardare alla scienza economica, che non appartiene a quest’ampia famiglia mainstream, che è quello della Scuola austriaca.

Scienza empirica o deduttiva?

Con il termine Scuola austriaca, mi riferirò principalmente al paradigma misesiano. Cioè alla riformulazione sistematica e coerente, operata da Ludwig von Mises e seguita poi dai suoi allievi Hayek, Rothbard e Kirzner, di quella tradizione di studi economici nata a Vienna nel secondo Ottocento con Menger, poi Böhm-Bawerk e Wieser. Forse il primo aspetto che distingue gli austriaci e, più precisamente i misesiani, dalle altre scuole di pensiero, sta nel considerare l’economia una scienza a priori, le cui proposizioni si fondano su una rigorosa giustificazione logica che non deriva dall’esperienza, e che l’esperienza non può neppure falsificare. Per enfatizzare questa concezione dell’economia come scienza pura, non empirica, che ricerca la logica e le implicazioni dell’azione umana, Mises propose il termine “prasseologia”.

Secondo gli austriaci, le leggi della prasseologia (come, ad esempio, la legge dell’utilità marginale decrescente, o la teoria quantitativa della moneta) essendo logicamente vere, ancor prima di osservarle, sono uno requisito necessario, anche se non sufficiente, per comprendere eventi altrimenti di difficile lettura. E se un’esperienza storica apparentemente contraddicesse, poniamo, la legge secondo cui un’espansione del credito provoca inflazione, non vuol dire che la relazione tra quantità di moneta e potere d’acquisto del denaro vada rigettata, perché la realtà è un intricato complesso di fattori. Un contestuale aumento della produzione potrebbe aver mascherato il rapporto causa-effetto, che tuttavia rimane vero. Per questo le proposizioni a priori di Mises irritano i critici della Scuola austriaca, che le considerano dogmatiche e non scientifiche in quanto non falsificabili sperimentalmente. Per le scuole ortodosse, al contrario, l’economia è una scienza empirica che sviluppa ipotesi che richiedono continui test.

L’empirismo nelle scienze sociali, infatti, considera la conoscenza sempre e solo ipotetica, mai definitivamente confermata, e sempre falsificabile. Mises fa osservare che, in tal modo, l’empirismo si auto-censura, negando la sua validità come teoria epistemologica. Essendo l’empirismo stesso una proposizione sintetica a priori, per essere dichiarato vero empiricamente, dovrebbe essere testato; ma il futuro, non esistendo ancora, per definizione, non è un test. L’empirismo, infatti, si rivela solo una variante dello scetticismo. Se neppure un’ipotesi provata fino ad oggi è vera per il futuro, ma solo, come direbbe Popper, non ancora falsificata, allora neppure l’empirismo si può dire vero. Nella contrapposizione tra l’empirismo di Locke, secondo il quale “nulla è nell’intelletto che non sia stato precedentemente nei sensi”, e il razionalismo di Leibnitz, che risponde: “eccetto l’intelletto stesso”, Mises sta dalla parte di Lebnitz, perché sostiene che la logica dell’azione umana, come la logica causa-effetto, sta scritta nella nostra mente.

Tuttavia va detto che, a suo tempo, il giovane Mises, come epistemologo dell’economia, era considerato molto meno eccentrico e contestatore rispetto a quanto può essere considerato oggi, anzi era visto come un ortodosso. Egli mirava solo a mettere in luce un metodo che già era seguito, pur non del tutto consapevolmente, da chiunque fino ad allora si riteneva economista. Anche Jean Baptiste Say, ad esempio, un secolo prima, teorizzava in modo molto simile a Mises, poiché si affidava a proposizioni logiche considerando la conoscenza empirica solo contingente, ma non necessaria e sufficiente. Ugualmente i primi austriaci, come Menger, Böhm-Bawerk, e Wieser, pur senza usare la terminologia impiegata da Mises, diffidavano delle misurazioni matematiche in economia, contando più sul ragionamento che sull’osservazione. Ma anche Lionel Robbins, in The Nature and Significance of Economic Science del 1932, che è stato una guida metodologica di grande successo, fa esplicitamente riferimento a Mises come all’autore più influente sulla sua posizione di metodo. Robbins, pur nascendo come austriaco, cambierà strada scorgendo l’incompatibilità con qualsiasi politica economica delle premesse misesiane.

Qualcuno degli assiomi

Gli austriaci costruiscono il loro solido sapere deduttivo, partendo da alcuni assiomi; cioè da affermazioni evidenti di cui non è possibile negare la validità senza cadere in un’auto-contraddizione. Ad esempio, l’assioma dell’azione umana, secondo cui gli uomini agiscono, non si può contestare senza, appunto, agire. Cioè negarlo sarebbe essa stessa un’azione. Anche argomentare contro l’intenzionalità, cioè il fatto che l’azione umana sia un purposeful behaviour sarebbe essa stessa un’azione intenzionale. Inoltre, coloro che negano il libero arbitrio, i deterministi, secondo i quali gli esseri umani sono corpi mossi da forze esterne o superiori alla loro volontà, fanno appello al nostro libero arbitrio per convincerci delle loro dottrine. Poi, va detto, che han sempre fallito nel formulare teorie che determinino il corso delle azioni umane, ad es. storicisti, marxisti, etc…

Il determinismo, invece, è appropriato per le scienze naturali che studiano atomi, particelle, onde prive di volontà che hanno, per loro natura, comportamenti maggiormente prevedibili. Poi non bisogna sottovalutare l’introspezione che conferma la nostra capacità di scegliere. Infatti le scienze umane godono del privilegio che il ricercatore condivide la stessa natura dell’oggetto osservato, cosa che gli procura una preziosa conoscenza di prima mano. Un altro assioma degli austriaci, noto come “individualismo metodologico”, sostiene che l’azione umana è strettamente individuale. Ovvero non esistono azioni imputabili a gruppi, collettività, governi, che non siano riconducibili alle azioni dei loro singoli membri. Dire, ad esempio, che l’America ha attaccato l’Irak è una semplice metafora per indicare che taluni americani membri del governo hanno ordinato ad altri di armarsi e pilotare aerei per combattere altri che abitano in Irak, etc…

Inoltre, le scelte che un uomo si trova a dover affrontare costantemente (pure non fare nulla costituisce una decisione) avvengono prediligendo uno tra una rosa di fini alternativi; impiegando mezzi che vengono sottratti agli altri possibili utilizzi. Questa rinuncia ai fini alternativi è il costo dell’azione. E il fatto che tutto costa, la scarsità delle risorse, è un altro inconfutabile assioma della prasseologia. Come si può contraddirlo senza usare tempo ed energie, mezzi scarsi che si potrebbero impiegare in altro modo? Poi ogni azione, diciamo per definizione, è designata a migliorare, dal punto di vista di chi la intraprende, la sua situazione. E se quest’azione consistesse nello scambio con un’altra persona, ad avvantaggiarsi sarebbero in due. Cioè entrambi valutano ciò a cui rinunciano meno di ciò che acquisiscono, altrimenti non acconsentirebbero alla negoziazione. Su questo “avvantaggiarsi” delle azioni volontarie si potrebbe discutere: un eroinomane migliora la sua situazione dissipando vita e patrimonio perseguendo nel suo vizio? Sì nel senso che avanza nei suoi progetti (è solo quando vi è coercizione che una parte trae profitto a spese dell’altra).

Va chiarito che la prasseologia non studia il contenuto dei fini. Questi possono essere saggi o autolesionisti, altruisti o egoisti, raffinati o volgari, le leggi dell’economia si applicano a qualunque tipo di fine. In questo si distingue da altre scienze sociali, come l’etica che indaga su quali fini l’uomo dovrebbe scegliere, la psicologia sul perché l’uomo mira a certi fini, la storia quali fini sono stati perseguiti. Inoltre, è molto importante riconoscere che ogni attore nell’economia ha una sua scala di valori che tende ad essere diversa da quella di ogni altro, oltre a mutare anche per se stesso. Essendo così diversi i bisogni e le preferenze, non ha senso provare a misurare la gratificazione che si prova a soddisfarli e tanto meno paragonarla tra persone. Non è possibile trovare una unità di misura oggettiva ed immutabile nel campo dei valori umani. Tra i primi ad avere tale concezione soggettivista del valore furono gli scolastici spagnoli del millequattrocento, recuperati quattro secoli dopo da Carl Menger nel suo “Principi di economia politica” che capovolse la visione classica smithiana e marxiana del valore lavoro con la nota “rivoluzione marginalista”, o, più correttamente, soggettivista.

Preferenze e curve di domanda

Un altro punto di contesa sta nel fatto che mentre i neoclassici assumono l’ipotesi, più o meno verosimile, che gli uomini agiscano per ottenere il massimo delle ricchezze materiali, e su ciò costruiscono modelli per predire scelte e stati futuri dell’economia, gli austriaci invece considerano il perseguimento dell’utilità non necessariamente in termini monetari. Le pagine dei manuali di microeconomia sono costellate di grafici con massimizzazioni vincolate del profitto, che dovrebbe rappresentare le scelte di individui tipici. All’interno di Human Action, invece, non vi è la pretesa di stilizzare e quindi predire azioni individuali. Mises considera le preferenze altrui non conoscibili finché non sono dimostrate nella realtà dell’azione, tutto il resto è pura immaginazione di estranei.

Mentre l’economia neoclassica è assediata da modelli matematici, per imitare la fisica che nel novecento godeva di enorme prestigio, per gli austriaci, anche una curva della domanda non si può disegnare nel modo in cui si traccia una funzione matematica. Innanzitutto perché è ridondante violando il principio del rasoio di Occam che richiede l’essenziale. Per capire che la domanda si muove nella direzione inversa al prezzo bastano le parole, non è necessario scrivere y = f(p) con dy/dp = f’ (p) ≤ 0. Poi le quantità acquistate sono discrete e, se non è continua, una funzione non è derivabile. Ma soprattutto non si può costruire la curva di domanda con tanti dati e calcolarne l’elasticità (cioè la reattività al cambiamento nei prezzi), perché le scelte passate non determinano le scelte future. Anche se si potesse trovare la funzione in grado di spiegare tutti i prezzi del burro negli ultimi cinquant’anni, non vi è garanzia che questa possa predire il suo prezzo preciso neppure del prossimo mese. Le ragioni delle variazioni del prezzo del burro sono di tipo tecnologico, climatologico, politico, dietologico, ecc… Nelle scelte umane ci sono troppe variabili, e comprendere che i fatti storici sono unici e irripetibili è un atteggiamento molto più “realista” di quello degli empiristi. Se i modelli econometrici fossero davvero in grado di prevedere il futuro economico perché allora non ci permettono di realizzare con regolarità alti guadagni in borsa? E perché poi limitarsi all’economia e non anche ad ogni aspetto del futuro?

Questo non vuol dire che gli austriaci non si attendano, ad esempio, certe conseguenze di determinate politiche; il punto è che per essi il compito di un economista, è dirci cosa accadrebbe se, dandoci indicazioni di tipo qualitativo, non quantitativo. Come il fatto che se si fissa d’autorità il prezzo massimo per una risorsa si provocherà sovra-consumo, senza indicare il momento e la misura esatta di questo evento atteso. Tra l’altro, lo stesso atto di previsione può mutare le forze in gioco. Se un governo si attendesse una recessione, prendesse misure appropriate e la evitasse, cosa vuol dire, che la previsione era sbagliata o giusta? Non c’è una risposta empirica, ci vuole una teoria a-priori per rispondere.

Piuttosto quella di prevedere il futuro è un’arte, un “fiuto”, più che una scienza, che spetta più agli imprenditori che agli scienziati e nella quale tutti quotidianamente tentiamo di riuscire. Un altro aspetto che diversifica le scienze sociali da quelle naturali è l’impossibilità di compiere esperimenti di laboratorio tenendo costanti alcune variabili e osservando le altre. Non c’è modo di stabilire, ad esempio, se noi oggi saremmo più o meno ricchi se non ci fossero stati mezzo secolo di Stato assistenziale, perché non si può tornare indietro nel tempo, togliere Inps, sanità e scuola pubblica, ecc… lasciare il resto uguale, e osservare il risultato. Per rispondere a certe domande non c’è che l’esperimento mentale, il, come direbbe Mises, Gedankenexperiment, che rappresenta per il teorico dell’economia quello che è il laboratorio per il fisico. Egli terrà alcune variabili costanti mentalmente, fidandosi della logica; poiché la clausola ceteris paribus non si realizza mai nella realtà che, come si è detto, rimane un intricato complesso di fattori.

Gli austriaci poi sono critici della maggioranza delle misura statistiche raccolte, in fin dei conti, per pianificare l’economia. Essi non considerano neppure l’idea di macroeconomia, perché non ritengono possibile ridurre la complessità degli accordi di mercato in enormi aggregati. Non si può, ad esempio, dire che lo stock di capitale nazionale è una sommatoria di costi storici d’acquisto che chiamiamo K, perché lo stock di capitale è eterogeneo. Una parte del capitale va inteso per vendere beni domani e un’altra per una vendita tra dieci anni, e il passaggio del tempo è molto importante. Anche il Gdp o Prodotto interno lordo inerente al modello neoclassico è pieno di errori. Mentre per i keynesiani la maggiore spesa pubblica è un elevatore della domanda aggregata, per gli austriaci, come vedremo, essa è un tiranneggiare governativo sul consumo privato e, di conseguenza, un distruttore di offerta.

Beni pubblici

Un altro refrain degli economisti neoclassici è l’analisi di fallimento del mercato. L’idea è che vi siano risorse, dette beni pubblici, come la pianificazione urbanistica, le vaccinazioni, le strade, la polizia, i parchi, i fari… i cui benefici si spandono oltre il consumatore diretto e quindi nel mercato nessuno si sobbarcherebbe l’onere di produrle, dal momento che tutti potrebbero goderne eludendone il pagamento. Tale difficoltà di escludere i cosiddetti free-riders implicherebbe che sia lo Stato a produrre i beni pubblici finanziandosi con la coercizione delle tasse. Questa visione di Samuelson, è stata contraddetta in modo definitivo dagli austriaci, oltre che smentita molte volte nella storia. Intanto la teoria dei public goods è pretestuosa poiché non vi è cosa al mondo a cui non si possano attribuire valenze collettive.

Ma se, ad esempio, un passante gode delle esternalità positive diffuse un’aiuola fiorita, non significa che siamo legittimati a strappargli un pagamento. Se l’utilità è soggettiva e non misurabile, come si può sostenere scientificamente che la privazione inflitta da una tassa sia compensata dall’investimento in aiuole? Tutt’altra cosa sono, invece, le esternalità negative che costituiscono violazione di proprietà, come quando un industriale inquina con i suoi fumi l’aria del proprio vicino. Allora la questione diventa un crimine, talvolta difficile da scoprire, ma da punire attraverso il sistema giudiziario. Più in generale, gli austriaci sottolineano che non si può dire che il mercato fallisce in qualche produzione quando le libere azioni degli individui dimostrano il contrario. Se un bene non viene prodotto nel mercato, vuol dire che i consumatori non sono disposti a sostenere i costi di quella produzione; altrimenti qualcuno vi avrebbe investito ricavandoci un profitto o andando in pareggio. Non ha senso economicamente, ad esempio, che un ministro esprima il desiderio che ci siano più alberi e ne faccia piantare d’autorità tre per ogni cittadino. Il solo metodo per sapere di quanti alberi c’è bisogno è privatizzare tutti i terreni e lasciar fare al mercato.

Se ve ne sono meno del necessario, verranno spontaneamente coltivati. Il mercato è il solo criterio disponibile per determinare come le risorse dovrebbero essere usate. Oggi molte cose vengono comunemente considerate beni pubblici solo perché lo Stato si arrogato la loro fornitura e ha vietato la proprietà e l’iniziativa privata in quei settori, non perché il mercato non le saprebbe produrre. Dietro la teoria dei beni pubblici vi è certamente anche una premessa welfarista. I neoclassici sostenitori del welfare affermano che, se la legge dell’utilità marginale decrescente è vera, prendendo un dollaro da un ricco e dandolo ad un povero, sotto forma ad esempio di assistenza sanitaria, si aumenterebbe il benessere sociale. A parte che formule come “bene pubblico”, “benessere sociale” sono prive di senso perché solo gli individui hanno scale di valori; il problema è ancora che l’utilità è soggettiva, non misurabile, non paragonabile tra persone, e qualunque compensazione è priva di basi razionali. Il welfare, inoltre, confiscando i produttori con la tassazione progressiva per dare ai non produttori, dissuade il lavoro produttivo.

Ma forse l’aspetto peggiore è che il governo, finanziando progetti non profittevoli sottrae risorse che si sarebbero potute investire in produzioni che i consumatori desideravano davvero e che a causa dell’intervento governativo vengono abbandonate. Dire “investimento statale” è un ossimoro. I soli investimenti sono quelli fatti dai capitalisti che rischiano i propri soldi nella speranza di soddisfare la futura domanda del consumatore. Gli investimenti pubblici sono noti sprechi di denaro, e si rivelano essere i consumi dei politici e dei burocrati. La redistribuzione, nei fatti, è un trasferimento di risorse non dai ricchi ai poveri, ma dalla società civile alla classe politico-burocratica e ad alcune lobby economicamente influenti. Tra i modi in cui lo Stato finanzia le sue opere, oltre alla fiscalità, vi è l’emissione di titoli sul mercato, come una specie di Spa.

Il punto è che, potendo fissare arbitrariamente alti i tassi di interesse del debito pubblico, pagati dai contribuenti, spiazza ancora i veri investimenti privati. Poi non dimentichiamo gli effetti distruttivi della regolamentazione, anch’essi parte del welfare. La regolamentazione è come una tassazione poiché riduce i diritti di proprietà su beni che solo formalmente rimangono ai titolari. Le regolamentazioni sull’edilizia, sulla sicurezza, sul lavoro, ad esempio, non solo inibiscono la produzione imponendo costi aggiuntivi, ma impediscono il processo di scoperta imprenditoriale riducendo la gamma di alternative di migliori metodi di impiego del capitale.

Il sistema dei prezzi

Se il marchio distintivo dell’economia convenzionale è l’uso dei modelli, quello dell’economia Austriaca è una profondo apprezzamento del sistema dei prezzi. Se i neoclassici tendono implicitamente a considerare il prezzo come la misure matematica dell’utilità (si prenda ad esempio la teoria di Coase secondo cui i giudici di Stato possono assegnare le proprietà, basandosi sui prezzi di mercato al fine di massimizzare l’utilità sociale) per gli austriaci, invece, quel numero espresso in moneta è un indice sintetico delle scarsità relative, cioè di quanto una risorsa è disponibile rispetto a quanto è richiesta. Per informare l’intera economia che, ad esempio, l’offerta di lana si è ridotta, non è necessario far sapere a tutti consumatori del mondo che una malattia ha colpito le pecore scozzesi e invitarli a moderare il consumo di lana. Saranno i tessuti più cari a indurre spontaneamente un comportamento appropriato. Il sistema dei prezzi, inoltre, con i profitti, richiama i produttori affinché lavorino per esaudire i nostri bisogni, e con le perdite li induce a deviare i propri mezzi in direzione di diverse domande dei consumatori. Poi stimola l’invenzione di soluzioni tecnologiche che permettono di accontentare, a parità di sforzi produttivi, un maggior numero di persone.

Il punto è che i prezzi devono essere generati all’interno di un sistema giuridico che rispetta rigorosamente la proprietà privata, facendo emergere le valutazioni soggettive del mercato, e non possono essere basati sui costi di produzione o altri criteri oggettivi come le ore di lavoro. Con tali argomenti Mises aveva predetto con straordinario anticipo il crollo delle economie socialiste. Nel 1920 Mises scrisse uno dei più importanti articoli del secolo: «Economic Calculation in the Socialist Commonwealth» seguito dal suo libro Socialism in cui sfidava i socialisti, (ad esempio Lange e Taylor), a spiegare come la loro economia sarebbe funzionata in assenza di proprietà privata e quindi di prezzi. Egli sosteneva che nel socialismo, dove tutte le risorse sono in mano allo Stato, essendo proibite le compravendite che danno luogo ai prezzi, un pianificatore non ha modo di sapere se sta usando le risorse efficientemente con il semplice calcolo dei profitti o delle perdite.

A parte la questione che non ha neppure l’incentivo a operare bene poiché usa ricchezze non sue, il pianificatore non conosce i costi opportunità di questo o quell’impiego di mezzi produttivi, e quindi brancola nel buio, ignorando se è più opportuno investire nella produzione di scarpe o di libri di storia. Anche Hayek si è inserito nel dibattito sul calcolo economico, affiancando agli argomenti di Mises la sua teoria sull’uso della conoscenza nella società. Hayek sosteneva che le infinite conoscenze su circostanze particolari di tempo e luogo, frammentate e disperse tra tanti proprietari, che fanno funzionare il mercato, mai potranno essere concentrate nella mente di un singolo decisore centrale. E neppure potranno essere sostituite da modelli matematici o statistici, per quanto elaborati, perché non sono facilmente quantificabili (si pensi a come un piccolo industriale conosce le abilità dei suoi dipendenti, o come un negoziante intuisce i gusti dei suoi clienti).

Notate come le previsioni di Mises sul socialismo erano aprioristiche, e non derivavano dall’osservazione empirica del funzionamento dei Soviet. Mises aveva spiegato anche perché il comunismo sarebbe durato a lungo (e nessuno poteva dire quanto), perché non era un completo comunismo finché poteva fare riferimento ai prezzi dei relativamente liberi mercati stranieri, e finché il mercato nero violava tutti i piani socialisti. Purtroppo pochissimi economisti mainstream, anche oggi, hanno compreso la sua lezione. E continuano a proporre interventi di politica economica che alterano i segnali dei prezzi. Un ovvio esempio sono le politiche agricole che sostengono i cereali e provocano enormi sovrapproduzioni; oppure i minimi salariali che rendono inevitabilmente disoccupati i lavoratori non qualificati; la legislazione antitrust che ha la presunzione di conoscere il giusto prezzo concorrenziale, chi avrebbe troppa quota di mercato e chi troppo poca, quale tipo di fusioni e acquisizioni danneggiano l’economia.

Quando invece gli austriaci sostengono che la concorrenza si ha in assenza di barriere legali all’entrata, e che i soli monopoli dannosi sono quelli creati coercitivamente dal governo. Dopo il dibattito sulla possibilità di un ordinamento socialista e fino a tutti gli anni Settanta, la Scuola austriaca è uscita di scena ed era ricordata solo nei testi di storia del pensiero economico. In questo periodo era difficile trovare un economista di rilievo che non condividesse i principi Keynesiani secondo cui il settore privato era irrazionale guidata da istinti animaleschi, che invece il governo era in grado di prevenire le recessioni, e che inflazione e disoccupazione erano inversamente correlati. Finché la stagflazione degli anni’70 e il conferimento del Premio Nobel nel ’74 ad Hayek, per la sua ricerca sui cicli economici, risvegliarono l’interesse accademico nei confronti della Scuola Austriaca e del libero mercato in genere.

Moneta e banche

Gli economisti mainstream non mettono neppure in discussione che una banca centrale di Stato debba produrre la moneta, in condizione di monopolio, attraverso una fiat currency flessibile, e debba controllare la struttura delle istituzioni finanziarie assicurando i loro depositi. Gli austriaci, invece, rifiutano interamente questo paradigma, e avanzano serie e radicali proposte di affidare l’intero sistema monetario al mercato. Gran parte della critica austriaca alle banche centrali si concentra sulla teoria dei cicli economici di Mises ed Hayek, che attribuisce a tali istituzioni la responsabilità maggiore del comportamento ciclico dell’attività economica. La teoria sostiene che gli sforzi della banca centrale di abbassare i tassi di interesse al di sotto del loro livello naturale per alimentare l’economia fanno sì che gli industriali tendano a sovra-investire nei progetti. Un tasso di interesse più basso, normalmente, è il segnale che i risparmi dei consumatori sono più disponibili. Ma un tasso di interesse tenuto artificialmente basso conduce gli uomini d’affari ad intraprendere progetti non coperti dai risparmi. Cioè un’impresa edilizia può costruire un nuovo edificio, con un credito creato dal nulla. Questo crea un illusorio boom seguito da un crollo, una volta che si è visto che i risparmi non erano sufficienti a giustificare quel grado di espansione.

Non è un caso che dettagliati studi confermino che molti periodi storici di espansione, recessione e ripresa furono tutti preceduti da macchinazioni della banca centrale. Il fatto poi che lo Stato si offra di riparare gli errori delle banche, assicurando i depositi con i soldi dei “contribuenti”, incoraggia i comportamenti irresponsabili eliminando la minaccia dell’insolvenza e del fallimento. Gli austriaci allora vorrebbero eliminare queste garanzie sui depositi che gravano sui prestatori di ultima istanza cioè i “contribuenti”, e vorrebbero permettere la corsa agli sportelli, apprezzando, in questo, il necessario controllo potenziale. Gli austriaci, poi, non approvano la regola dei Monetaristi, come Friedman, che propongono una sorta di “costituzione monetaria” che vincoli ad un tasso di crescita della moneta fisso.

A parte l’ingenuità sottostante qualunque idea di costituzione e di vincolo auto-imposto, l’aumento di moneta e credito, per quanto piccolo, creerà sempre“effetti iniezione” e ciclo economico, pur mantenendo un relativamente stabile indice di inflazione; come pare sia avvenuto negli anni ’80. Cosa dovrebbero fare allora i policymakers quando l’economia entra in recessione? Intanto ci vuole tempo per ripulire l’economia dai cattivi investimenti creati dal boom del credito. I progetti intrapresi devono fallire, i lavoratori erroneamente assunti devono perdere i loro lavori, e i salari devono scendere. Dopo che l’economia si è depurata dai malinvestiments indotti dalla banca centrale, la crescita può ricominciare, basandosi su stime realistiche della domanda dei consumatori. E se il governo vuole davvero alimentare la ripresa deve, come sempre, tagliare le tasse, la spesa pubblica ovunque e subito, smettere di finanziarsi nel mercato del credito, tutto ciò per restituire più ricchezza possibile ai privati. La banca centrale è anche la colpevole dell’inflazione.

Da quando la Federal Riserve System è stata creata nel 1913, il valore del dollaro si è ridotto del 98%. Ricordiamo, per inciso, che l’indice dei prezzi, lo strumento con il quale il governo calcola l’inflazione non è un buon indicatore perché maschera i complessi movimenti di prezzi relativi tra i settori. Comunque, l’incentivo della banca centrale conduce ad una politica inflazionistica proprio come un falsario è portato a mantenere la sua macchina tipografica in continuo funzionamento. Derubando i risparmiatori e coloro che sono gli ultimi a vedere i propri redditi aggiornati all’inflazione. Per risolvere l’impasse gli austriaci misesiani auspicano un ritorno ad un gold standard con la fine della riserva frazionaria per le banche commerciali e una copertura al 100%, mentre gli hayekiani sostengono un sistema in cui i consumatori possano scegliere tra una varietà di valute, cosa che forse porterebbe ad un risultato non del tutto dissimile.

Prasseologia e ideologia

Essendo questo un seminario Rothbard vorrei concludere la presente relazione con un minimo accenno alla critica rothbardiana dell’utilitarismo di Mises. Tutta la monumentale difesa del laissez-faire impostata da Mises, consiste nel tracciare catene causa-effetto al fine di esporre ai sostenitori dell’intervanto statale nell’economia le conseguenze controproducenti, rispetto alle loro intenzioni, di determinate politiche. Mises, nel ruolo di scienziato sociale, non espone mai giudizi di valore; quando esprime giudizi lo fa in modo tiepido e nel ruolo di comune cittadino, per non indulgere in “chiacchiere emotive”. Ma come si può, ad esempio, sperare di eliminare l’imposta progressiva sul reddito o coercizioni ben più gravi facendo appello alla non misurabilità dell’utilità, quando essa è motivata da istanze egualitarie, che magari nascondono solo risentimenti, ma che si presentano moralmente superiori?

Nelle nostre democrazie moderne lo sprone verso l’uguaglianza tende ad essere ancor più forte delle considerazioni utilitaristiche. Allora anche se la teoria economica austriaca è il fondamento intellettuale necessario per fornire conoscenze per inquadrare la politica economica pubblica, non è sufficiente. Il messaggio di Rothbard è che per invertire radicalmente la tendenza allo statalismo si deve andare oltre l’economia e costruire un’etica oggettiva che condanni qualsiasi forma di aggressione ai diritti individuali (sia essa motivata dalla brama di potere, dal soddisfacimento dell’invidia o da qualunque buona intenzione della maggioranza), e che affermi invece il valore preminente della libertà individuale.

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