L’ITALIA HA DICHIARATO GUERRA A CHI PRODUCE

L’ITALIA HA DICHIARATO GUERRA A CHI PRODUCE

L’Indipendenza, 14 gennaio 2014

Le analisi sociologiche del compianto professor Gianfranco Miglio possono ancora offrire un’importante chiave di lettura degli avvenimenti italiani degli ultimi decenni. «Dove c’è ricchezza – spiegava Miglio – gli uomini cercano d’impadronirsene ad ogni costo e creano giustificazioni ad hoc per la propria rapacità. È questo l’arcano dello “Stato sociale” e di tutte le sue forme degenerative: una parte dell’umanità preferisce organizzarsi (o utilizzare le strutture statali esistenti) per vivere alle spalle degli altri».

Ogni sistema fiscale, infatti, divide la società in due classi contrapposte. Da una parte vi sono coloro che producono le ricchezze (i lavoratori autonomi e dipendenti del settore privato), dall’altra coloro che vivono sui proventi derivanti dalla tassazione di queste ricchezze (la casta politico-burocratica e le clientele assistite). Questa contrapposizione può anche assumere un carattere territoriale, quando gli appartenenti alle due classi sono concentrati prevalentemente in due aree distinte del paese, come in Italia, divisa tra il nord produttivo e il sud maggiormente assistito, o in Belgio, dove i fiamminghi si lamentano degli eccessivi trasferimenti a favore dei valloni.

Quando la tassazione viene portata all’eccesso, l’intero sistema produttivo entra in crisi e si crea una situazione di conflitto tra queste due classi sociali. «In ogni momento storico – osservava Miglio – gli individui di una Comunità politica si dividono naturalmente in produttori e consumatori di tasse. Quando i consumatori di tasse prendono il sopravvento tramite le assemblee politiche e considerano i produttori i propri schiavi fiscali, la struttura parassitaria mette in crisi tutta la Comunità politica. A quel punto o si riforma totalmente il sistema, o ci si rassegna alla rivoluzione che, per definizione, non è pilotabile» (G. Miglio, Federalismo e secessione, Mondadori, 1997, p. 34 e 73).

La crisi in cui si dibatte attualmente l’Italia ha dunque origine nella persecuzione fiscalescatenata dalla casta politico-burocratica contro la classe dei produttori privati, che in pochi anni ha portato a un aumento della pressione tributaria e a un inasprimento dei controlli sulla vita privata dei contribuenti senza eguali nel mondo.

Una guerra immotivata

Ogni aumento delle imposte e della spesa pubblica ha l’effetto di far arricchire e rendere più potente una parte, e di impoverire e indebolire l’altra. Ebbene, dai dati del Fondo Monetario Internazionale risulta che negli ultimi anni in Italia si è verificato un colossale trasferimento di ricchezze dal settore privato al settore statale. Nel 1996 le entrate dello Stato italiano ammontavano a più di 450 miliardi di euro, nel 2003 hanno raggiunto i 600 miliardi, e nel 2013 i 760 miliardi. L’aumento della spesa è stato ancora più rapido di quello delle entrate. La spesa pubblica, che nel 1996 superava di poco i 500 miliardi di euro, ha raggiunto i 600 miliardi nel2001, haquasi toccato i 700 miliardi nel 2005, per poi superare gli 800 miliardi nel 2013.

Questi numeri rivelano che nell’arco di soli quindici-vent’anni, caratterizzati da una bassissima crescita economica, i privati sono stati costretti a suon di minacce, insulti e pesanti intimidazioni a versare nelle mani dei membri dell’apparato statale 300 miliardi aggiuntivi, oltre ai 500 miliardi che già pagavano! Se escludiamo le esperienze storiche delle rivoluzioni comuniste, probabilmente non si è mai verificata un’espropriazione di ricchezze private così rapida e imponente. Questa guerra scatenata dallo Stato contro l’apparato produttivo del paese, tuttora in corso di svolgimento, non sembra aver alcuna giustificazione razionale, né dal punto di vista economico, né dal punto di vista politico. La decisione delle classi governanti di dare il via all’escalation di tasse e spesa pubblica non ha migliorato il livello qualitativo di nessun servizio pubblico rispetto a vent’anni fa, ma ha aumentato a dismisura le occasioni di spreco e di corruzione, la corsa ai privilegi odiosi e ingiustificati, ha distrutto una larga fetta del tessuto produttivo privato costringendo alla chiusura centinaia di migliaia di piccole imprese, ha provocato l’aumento della disoccupazione e più in generale l’abbassamento del tenore di vita delle famiglie.

Anche dal punto di vista politico questa offensiva fiscale non sembra avere una legittimazione plausibile. La spesa pubblica italiana era considerata eccessiva già negli anni Novanta; pochi ne chiedevano l’ulteriore aumento, nessuno chiedeva di raddoppiarla in meno di vent’anni. Le elezioni politiche, infatti, hanno spesso premiato quei partiti, come Forza Italia o la Lega Nord, che si sono presentati come interpreti di una rivolta antiburocratica e antifiscale. Le loro successive sconfitte elettorali sono state la logica conseguenza della delusione dell’elettorato per il tradimento della “rivoluzione liberale” che era stata promessa. Questo stesso elettorato ha poi condannato senza appello, nelle elezioni politiche del 2008, l’esperienza del governo Prodi, giudicata troppo statalista. Tutto questo dimostra che in Italia non è mai esistita una domanda di “maggior Stato” tale da giustificare quell’elenco interminabile di nuove tasse introdotte negli ultimi anni.

Una guerra unilaterale

L’Italia è stata trasformata in un inferno fiscale per mezzo di una guerra unilaterale, dichiarata e combattuta dalla parte armata e munita del monopolio dei mezzi di costrizione, e subita dalla parte disarmata della società. Ogni guerra fiscale, infatti, è sempre condotta dai potenti e dai privilegiati contro i ceti più indifesi della società. I vincitori di questo scontro finora sono stati i membri della casta (politici e funzionari pubblici), che oggi risultano più numerosi, potenti, ricchi e tutelati. Gli sconfitti sono stati i lavoratori del settore privato, gli imprenditori, gli artigiani, i commercianti, che hanno perso il lavoro, la casa, l’azienda, e sono stati spinti ad emigrare o a suicidarsi.

Sono questi ultimi, infatti, che sopportano per intero il carico fiscale. L’idea che i membri dello Stato paghino le tasse è dal punto di vista economico completamente priva di senso. Chi lavora nel settore pubblico “paga” le tasse solo in maniera fittizia, attraverso una partita di giro contabile. Nella realtà le cose avvengono molto diversamente: lo Stato preleva le risorse che gli servono dal settore privato, e le utilizza per pagare gli stipendi a tutti i propri dipendenti. L’idea che lo Stato possa ottenere delle entrate tassando il settore pubblico, che non produce utili ma solo perdite colossali, è assurda e ridicola. La verità è che se domani ogni azienda privata chiudesse, le entrate fiscali dello Stato si azzererebbero, e non ci sarebbero più risorse per mantenere in piedi l’apparato statale.

Non meno pretestuosa è l’idea che le imposte siano necessarie per la fornitura dei servizi pubblici. In realtà lo Stato offre servizi scadentissimi o inesistenti a costi stratosferici, che nessuna persona sana di mente acquisterebbe mai volontariamente sul mercato. È stato calcolato, ad esempio, che per l’istruzione di un alunno lo Stato spende tre-quattro volte più di una scuola privata; che la spesa pubblica pro-capite per la sanità permetterebbe di acquistare sul mercato tre assicurazioni sanitarie onnicomprensive a testa più tre check-up completi all’anno; che versando gli ingenti contributi pensionistici in una polizza o in un fondo, un lavoratore privato potrebbe riscuotere, al termine dell’attività lavorativa, una rendita vitalizia dieci volte più cospicua della pensione da fame che gli darà l’Inps.

Se i lavoratori autonomi e dipendenti del settore privato avessero libertà di scelta, e potessero rinunciare ai servizi pubblici trattenendo per sé le imposte pagate, si verificherebbe una fuga generalizzata dallo Stato. Tutti preferirebbero l’aumento del 70 per cento dei propri redditi alla fruizione degli attuali servizi pubblici di infimo livello. A quel punto la totale inutilità dello Stato italiano diventerebbe evidente a tutti. L’intera impalcatura statale e tutte le ideologie che la giustificano crollerebbero come castelli di carta.

L’evasione fiscale come resistenza civile

Purtroppo le classi produttive private, colte di sorpresa dall’attacco virulento sferrato da una classe politica che per anni aveva nascosto le sue reali intenzioni dietro la retorica liberale della lotta all’invadenza dello Stato, appaiono per ora completamente annichilite. Solo in Veneto sono apparsi alcuni segnali di ribellione, ma la stessa cosa non può dirsi per le altre regioni produttive del nord. In Lombardia i ceti produttivi appaiono pesti e confusi come pugili suonati sul ring. Probabilmente è sorta la consapevolezza che non sia più possibile modificare l’attuale situazione con gli strumenti “democratici” che mette a disposizione lo Stato nazionale.

Tutto l’ordinamento politico, amministrativo e giudiziario italiano infatti è congegnato in modo da far prevalere sempre l’interesse dei consumatori di tasse su quello dei pagatori di tasse. Nella giurisprudenza amministrativa e costituzionale anche le forme più ingiuste di privilegio diventano automaticamente intoccabili “diritti acquisiti” se vanno a vantaggio dei tax-consumers (come l’illicenziabilità, i vitalizi, le pensioni d’oro, baby, doppie o triple), ma lo stesso non accade quando i vantaggi sono a favore dei tax-payers. Ad esempio, una riduzione fiscale non diventa mai un “diritto acquisito” per il contribuente, e può essere sempre revocata dal potere politico.

È opinione ormai diffusa che tutti i problemi principali del nostro paese (sperperi, corruzione, privilegi, ingiustizie, parassitismo, distruzione dell’etica del lavoro) nascono dal fatto che lo Stato gestisce troppi soldi, non troppo pochi. Tutte le proposte di riforma costituzionale dovrebbero quindi concentrarsi sui modi per impedire allo Stato di fagocitare troppe risorse alla società, mentre la lotta all’evasione fiscale che assilla la classe politica dovrebbe costituire l’ultima delle priorità. In un sistema privo di meccanismi politici o giuridici capaci di fermare l’invadenza dello Stato, e di fronte a un Leviatano che ogni giorno s’ingrossa sempre di più, l’evasione fiscale può rappresentare invece una delle pochissime forme di resistenza pacifica rimaste a disposizione della società civile. Per questa ragione la rivolta fiscale dovrebbe essere applaudita da tutti coloro che ancora conservano un minimo di onestà intellettuale e di amore per la propria terra.

 

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