GIORGIO BIANCO – Elefanti Al Guinzaglio

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 2,60

– Una soluzione di mercato per evitarne l’estinzione

Solo con la privatizzazione si potranno salvare gli elefanti africani

Edizioni: Leonardo Facco Editore   Anno: 2001   pag. 64

Descrizione

Gli ecologisti più radicali accusano spesso l’economia di mercato di essere responsabile del saccheggio delle risorse naturali e della distruzione dell’ambiente. Secondo il loro punto di vista, la forsennata ricerca del profitto starebbe mettendo a repentaglio la sopravvivenza di numerose specie animali: dai panda alle tigri, dai rinoceronti alle balene. Contro questi questi pregiudizi anticapitalistici diffusi dagli ambientalisti, che facendo leva sull’emotività del pubblico trovano purtroppo sempre più spazio nei media, il giovane studioso torinese Giorgio Bianco ha scritto un saggio tanto convincente quanto documentato con un titolo, Elefanti al guinzaglio, che è già tutto un programma.

Il libro, che si apre con una importante prefazione dell’economista francesa Henry Lepage, affronta la vicenda degli elefanti africani, i quali sul finire degli anni ’80 furono al centro di una forte mobilitazione internazionale, poichè in dieci anni il loro numero si era quasi dimezzato. Per salvarli dal rischio d’estinzione, la campagna ecologista puntò l’indice contro il commercio dell’avorio, e riuscì a imporne il bando internazionale nel meeting di Losanna del 1989. Il Kenya adottò prontamente questa soluzione proibizionista, statizzando gli elefanti e dichiarando guerra al bracconaggio, ma altri paesi, tra cui lo Zimbabwe, si rifiutarono di ricorrere a costosi programmi governativi centralizzati o a restrizioni commerciali difficilmente applicabili, nella convinzione che risultati migliori si sarebbero ottenuti attribuendo gli elefanti in proprietà agli abitanti dei villaggi, che sarebbero stati liberi di gestirli secondo le proprie esigenze.

I fatti hanno confermato la validità della strategia privatistica e decentralizzata dello Zimbabwe, che ha visto da allora crescere il numero degli elefanti a un tasso del 7% annuo. In Kenya, dove gli elefanti sono protetti da guardie governative in speciali riserve statali, i risultati sono stati così miserevoli che, per ammissione dello stesso presidente Arap Moi, il paese rischia di trovarsi nel 2005 senza neanche un elefante. In Kenya si combatte quotidianamente una inutile, sanguinosa e costosa guerra tra guardie e bracconieri, i quali quando scoperti possono essere uccisi sul posto. Malgrado queste sanzioni draconiane, i cacciatori di frodo, anche grazie alla corruzione, riescono ad abbattere ogni giorno centinaia di esemplari. La propaganda keniota insiste sul fatto che gli elefanti sono ora “proprietà del popolo”, ma in realtà si tratta di una proprietà puramente fittizia: come insegnano i teorici dell’ecologia di mercato, la disciplina che affronta le questioni ambientali con un approccio liberale, ciò che è di tutti è in realtà di nessuno, e così nessuno se ne ritiene responsabile.

I villaggi dello Zimbabwe, proprietari non simbolici ma effettivi degli elefanti, hanno invece un forte incentivo a favorirne la moltiplicazione, proprio come tutti gli allevatori. Questi animali non rappresentano più un pericolo o una passività per le popolazioni con cui vivono a contatto, ma una ricchezza da gestire oculatamente: non solo grazie alla vendita dell’avorio, ma anche cedendo ai turisti dietro lauto compenso il diritto di cacciare i pachidermi o di fotografarli durante i safari. E da proteggere con cura: da quando i villaggi sono diventati proprietari degli elefanti, il bracconaggio nello Zimbabwe si è ridotto a percentuali esigue. La privatizzazione ha così contribuito non solo a difendere una specie minacciata, ma anche a offrire un’occasione di sviluppo economico alle popolazioni autoctone.

In definitiva, l’errore capitale commesso dai sostenitori della messa al bando del commercio dell’avorio, spiega acutamente Bianco, è stato quello di ritenere che per salvare le specie in pericolo sia necessario preservarle dall’uomo, anziché trasformarle in risorse vantaggiose per l’uomo. La lezione da trarre è che il disprezzo per i diritti di proprietà e per le regole del mercato, tipico dell’ambientalismo di sinistra, rovina sia l’economia che l’ambiente naturale.

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1 recensione per GIORGIO BIANCO – Elefanti Al Guinzaglio

  1. Libreria del Ponte

    Recensione di Guglielmo Piombini

    Gli ecologisti più radicali accusano spesso l’economia di mercato di essere responsabile del saccheggio delle risorse naturali e della distruzione dell’ambiente. Secondo il loro punto di vista, la forsennata ricerca del profitto starebbe mettendo a repentaglio la sopravvivenza di numerose specie animali: dai panda alle tigri, dai rinoceronti alle balene. Contro questi questi pregiudizi anticapitalistici diffusi dagli ambientalisti, che facendo leva sull’emotività del pubblico trovano purtroppo sempre più spazio nei media, il giovane studioso torinese Giorgio Bianco ha scritto un saggio tanto convincente quanto documentato con un titolo, Elefanti al guinzaglio, che è già tutto un programma.

    Il libro, che si apre con una importante prefazione dell’economista francesa Henry Lepage, affronta la vicenda degli elefanti africani, i quali sul finire degli anni ’80 furono al centro di una forte mobilitazione internazionale, poichè in dieci anni il loro numero si era quasi dimezzato. Per salvarli dal rischio d’estinzione, la campagna ecologista puntò l’indice contro il commercio dell’avorio, e riuscì a imporne il bando internazionale nel meeting di Losanna del 1989. Il Kenya adottò prontamente questa soluzione proibizionista, statizzando gli elefanti e dichiarando guerra al bracconaggio, ma altri paesi, tra cui lo Zimbabwe, si rifiutarono di ricorrere a costosi programmi governativi centralizzati o a restrizioni commerciali difficilmente applicabili, nella convinzione che risultati migliori si sarebbero ottenuti attribuendo gli elefanti in proprietà agli abitanti dei villaggi, che sarebbero stati liberi di gestirli secondo le proprie esigenze.

    I fatti hanno confermato la validità della strategia privatistica e decentralizzata dello Zimbabwe, che ha visto da allora crescere il numero degli elefanti a un tasso del 7% annuo. In Kenya, dove gli elefanti sono protetti da guardie governative in speciali riserve statali, i risultati sono stati così miserevoli che, per ammissione dello stesso presidente Arap Moi, il paese rischia di trovarsi nel 2005 senza neanche un elefante. In Kenya si combatte quotidianamente una inutile, sanguinosa e costosa guerra tra guardie e bracconieri, i quali quando scoperti possono essere uccisi sul posto. Malgrado queste sanzioni draconiane, i cacciatori di frodo, anche grazie alla corruzione, riescono ad abbattere ogni giorno centinaia di esemplari. La propaganda keniota insiste sul fatto che gli elefanti sono ora “proprietà del popolo”, ma in realtà si tratta di una proprietà puramente fittizia: come insegnano i teorici dell’ecologia di mercato, la disciplina che affronta le questioni ambientali con un approccio liberale, ciò che è di tutti è in realtà di nessuno, e così nessuno se ne ritiene responsabile.

    I villaggi dello Zimbabwe, proprietari non simbolici ma effettivi degli elefanti, hanno invece un forte incentivo a favorirne la moltiplicazione, proprio come tutti gli allevatori. Questi animali non rappresentano più un pericolo o una passività per le popolazioni con cui vivono a contatto, ma una ricchezza da gestire oculatamente: non solo grazie alla vendita dell’avorio, ma anche cedendo ai turisti dietro lauto compenso il diritto di cacciare i pachidermi o di fotografarli durante i safari. E da proteggere con cura: da quando i villaggi sono diventati proprietari degli elefanti, il bracconaggio nello Zimbabwe si è ridotto a percentuali esigue. La privatizzazione ha così contribuito non solo a difendere una specie minacciata, ma anche a offrire un’occasione di sviluppo economico alle popolazioni autoctone.

    In definitiva, l’errore capitale commesso dai sostenitori della messa al bando del commercio dell’avorio, spiega acutamente Bianco, è stato quello di ritenere che per salvare le specie in pericolo sia necessario preservarle dall’uomo, anziché trasformarle in risorse vantaggiose per l’uomo. La lezione da trarre è che il disprezzo per i diritti di proprietà e per le regole del mercato, tipico dell’ambientalismo di sinistra, rovina sia l’economia che l’ambiente naturale.

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