GIORGIO BIANCO, Vietato Parlare! [FORMATO pdf]

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Il politicamente corretto come minaccia per la libertà

Brillante analisi degli aspetti più totalitari del politically correct

Edizioni: Leonardo Facco Editore   Anno: 2004   pag. 120

COD: 018-275 Categorie: ,

Descrizione

Leggendo Vietato parlare! Il “politicamente corretto” come minaccia per la libertà si rimane impressionati scoprendo quanto in profondità si è imposta in tutto l’Occidente, senza che neanche ce ne accorgessimo, l’egemonia culturale del “politicamente corretto” sviluppatasi durante gli anni Ottanta nei campus universitari americani: siamo così assuefatti dai tic mentali della correttezza politica, abbiamo introiettato così tanto i suoi tabù, che ormai li rispettiamo e ossequiamo automaticamente. Per questo un libro come quello di Giorgio Bianco, brillante giovane studioso del mondo libertario italiano ruotante attorno all’editore Leonardo Facco, si rivela utile e importante: perché ci fa aprire gli occhi, permettendoci di riconoscere in tanti stereotipi e in tante vulgate che ascoltiamo quotidianamente l’espressione di una deliberata strategia gramsciana per la conquista delle anime e dei pensieri.

Il politicamente corretto riflette la vittoria della Controcultura, che da “movimento” si è fatta “regime” quando gli artefici di quella Rivoluzione Culturale degli anni Sessanta e Settanta hanno raggiunto i posti che contano nella società, nella politica, nei media, nelle università. Questi intellettuali “progressisti” hanno imposto così un nuovo linguaggio fatto di eufemismi per non offendere la sensibilità si determinati gruppi minoritari designati come “vittime” della società (neri, donne, omosessuali, handicappati e così via), hanno riscritto una nuova versione della storia dove la civiltà occidentale compare come responsabile di tutte le ingiustizie, hanno mitizzato le società preindustriali e precapitalistiche del Terzo Mondo, e hanno condotto una vera e proprio kulturkampf contro i segni e i valori della tradizione giudaico-cristiana, bollati di volta in volta come repressivi, maschilisti, omofobici, autoritari.

Il vero problema, osserva giustamente Giorgio Bianco, non sta tanto in queste proposte in sé per sè, che possono essere legittimamente confrontate con altre nel mercato delle idee, quanto nell’incontro tra politically correct e Stato. Quando infatti il movimento chiede agli apparati che detengono il monopolio della forza di dare cogenza normativa alle proprie raccomandazioni, la correttezza politica assume tratti potenzialmente totalitari. Bianco ricorda due episodi emblematici accaduti negli Stati Uniti: la condanna al carcere inflitta ad una casalinga del Michigan che, riferendosi agli ispanici, aveva usato la parola spics in una conversazione privata con il marito, ma era stata origliata per caso da uno sceriffo ispanico fuori servizio; e il caso di un’impiegata governativa dello Stato di New York, licenziata per aver usato ingiurie razziali in una conversazione telefonica segretamente registrata. Entrambi gli episodi avrebbero potuto essere ripresi pari pari da 1984 di Orwell, in cui uno Stato terapeutico onnipervasivo monitorizza e punisce i pensieri e le espressioni private, nel tentativo di ricostruire gli esseri umani così come il governo esige che siano.

Particolarmente interessante è il capitolo dedicato alla confutazione di un mito della correttezza politica: quello del buon selvaggio. Dati storici alla mano, Bianco spiega che l’idea secondo cui prima dell’incontro con gli europei le popolazioni indigene fossero pacifiche, leali, generose, tolleranti, spiritualiste ed ecologiste è una mistificazione intellettuale bella e buona. Lungi dal mostrare un “sacrale” rispetto per gli altri uomini, la terra, animali e per la natura, le popolazioni precolombiane del Nord, del Centro e del Sud dell’America (dai pellerossa agli Aztechi ai Maya agli Incas) furono tra le più crudeli, bellicose e antiecologiche che la storia ricordi. Inoltre è scorretto pure definirle come “native”, perché esse non furono altro che le penultime tra le tante popolazioni che migrarono in quel continente scacciando o sterminando le popolazioni precedenti.

I capitoli successivi si incentrano sulla critica di una serie di misure legislative adottate su pressione dell’ideologia del politically correct: le norme antidiscriminatorie, che impediscono ad un imprenditore di assumere chi vuole; i sistemi delle quote; le affermative actions: tutte politiche incompatibili con una società formata da individui liberi, dove la discriminazione (anche basata su un pregiudizio) non è che l’espressione di una libera scelta di intrattenere o meno un rapporto con una persona. D’altra parte, sottolinea Bianco, dietro tanta sbandierata “tolleranza” si nasconde nella correttezza politica una implacabile intolleranza verso alcune categorie di persone che per un motivo o per l’altro vengono prese di mira dalle crociate del moralismo salutista, come i fumatori e i grassi.

L’ultimo capitolo del libro è poi dedicato a smontare quello che può essere considerato il mito dei miti della sinistra politicamente corretta: quello della buona fede comunista. Bianco ricorda invece le conclusioni cui era arrivato Murray N. Rothbard, secondo cui nessun esperimento comunista realizzato, salvo forse parzialmente quello cambogiano di Pol Pot, è mai riuscito ad avvicinarsi alla mostruosità suprema della società comunista ideale teorizzata da Marx e d Engels.

Dalla critica di Giorgio Bianco il “politically correct” ne esce a pezzi, in tutti i suoi aspetti. Molti forse, dopo aver letto questo libro, inizieranno a vedere sotto una luce diversa i politici in doppiopetto “che pensano a noi” o i medici in camice bianco che chiedono “misure preventive”, invocando sempre nuovi divieti “per il nostro bene”.

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