Guglielmo Piombini, RISPOSTA A STEFANO MAGNI SULLA POLITICA ESTERA OGGETTIVISTA

Guglielmo Piombini, RISPOSTA A STEFANO MAGNI SULLA POLITICA ESTERA OGGETTIVISTA

Enclave. Rivista libertaria 21/2003
L’articolo di Stefano Magni intende rispondere ad una affermazione di Roy Childs (riportata nel mio articolo “Il libertarismo da Ayn Rand a Murray N. Rothbard”, pubblicato sul n. 19 di Enclave-Rivista libertaria), secondo il quale è impossibile identificare negli scritti di Ayn Rand una coerente visione della politica estera. La Rand infatti parlava talvolta in maniera favorevole dei movimenti isolazionisti americani tra le due guerre, e sembrava contraria all’intervento militare contro la Germania nazista e l’Italia fascista; d’altro canto si dichiarò favorevole alla guerra contro il Giappone e l’Unione Sovietica, ma criticò la guerra nel Vietnam in quanto “altruista”. Magni fornisce pertanto una serie di criteri utili a spiegare le ragioni di queste prese di posizione, che a prima vista sembrano arbitrarie o contraddittorie.

Per contro, la posizione coerentemente isolazionista di Murray N. Rothbard appare molto più immediata e comprensibile. Pur manifestando durante le diverse fasi intellettuali della sua vita interessi culturali e strategie politiche diverse (avvicinandosi prima alla Old Right, poi alla New Left e infine ai paleoconservatori), Rothbard ha sempre mantenuto una ferma contrarietà agli interventi militari americani all’estero in ogni frangente storico, dalla seconda guerra mondiale fino alla guerra del Golfo (le uniche due guerre giuste dell’America, in quanto difensive, sono state secondo Rothbard quella delle colonie per l’Indipendenza e quella dei sudisti durante la guerra di secessione).

Per Rothbard la guerra è un prodotto dello statalismo, dato che l’espansione dei poteri pubblici consegna nelle mani della classe politica un enorme potenziale aggressivo che prima o poi userà, quando i rapporti di forza internazionali saranno propizi; ma la relazione è biunivoca, nel senso che ogni stato di guerra produce necessariamente un’economia di tipo socialista, anche quando non viene chiamata in questo modo (Carlo Lottieri ha scritto un ottimo articolo su questo argomento: “No Welfare, No Warfare”, Ideazione, n. 1/2003). È innegabile infatti che negli ultimi secoli le guerre abbiano sempre rappresentato l’occasione per gli Stati di allargare il proprio potere a spese della società, conquistando prerogative che non saranno mai più restituite. Non pochi “oggettivisti” e liberaldemocratici sembrano però, se non ignorare, sottovalutare con troppa leggerezza questo stretto rapporto tra statalismo e guerra: eppure il legame tra la pace e il libero mercato è sempre stato al centro della riflessione dei liberali classici, da Bastiat a Bright, da Cobden a G. Sumner, da Pareto a von Mises.

Lo scritto di Stefano Magni si apre con l’affermazione secondo cui la filosofia della Rand rappresenterebbe un tentativo unico nel suo genere di abbattere il confine tra “interno” ed “estero”, considerando tutti gli individui del mondo come parte di un’unica comunità, giudicabili a partire da un unico codice morale universalmente applicabile. A mio parere, mi sembra che questa descrizione si addica di più alla filosofia libertaria di Murray N. Rothbard: non solo perché l’accettazione randiana dello “Stato gendarme” lascia intatta, pur in minima parte, la differenza tra membri della classe governante e individui privati (i primi ad esempio possono svolgere attività di protezione, sicurezza e giustizia, mentre i secondi no); ma anche perché, come vedremo, ai governanti e ai cittadini di alcuni tipi di Stati (le cosiddette “società libere”) sono permesse azioni che sarebbero giudicate immorali o criminali se commesse dai governanti e dai cittadini delle “società non libere”.

La distanza che separa la posizione in politica estera illustrata da Magni da quella dei libertari rothbardiani nasce da una diversa valutazione dello Stato moderno e della democrazia. Per questi ultimi tutti gli Stati esistenti sono illegittimi, democrazie comprese; per alcuni paleolibertari come Hoppe le democrazie rappresentano addirittura un peggioramento rispetto alle monarchie tradizionali, avendo introdotto una concezione impersonale, pubblica e collettivistica del governo, laddove un tempo vi erano solo relazioni e poteri privati.

Secondo l’interpretazione che Magni dà delle idee dei randiani vi sarebbero invece degli Stati (le democrazie liberali) che, benché illegittimi perché fondati sulla tassazione coercitiva, sarebbero tuttavia “perfettibili”. L’uso di questo termine mi pare problematico. La “perfettibilità” infatti è una caratteristica potenziale di un essere: non riguarda quello che è attualmente, ma quello che potrebbe diventare. È la capacità di conseguire il massimo livello di una qualità positiva. Qual’è allora il significato con cui viene usato questo termine? Significa forse che, grazie alla loro “perfettibilità”, le democrazie liberali possono arrivare a “sanare” la macchia della nascita “non immacolata” (cioè coercitiva e violenta) dello Stato moderno? E in che modo questo potrebbe avvenire? La risposta dei rothbardiani è una sola: accettando il codice morale universale e rinunciando ad esercitare tutti i privilegi legati al monopolio legale, trasformandosi così in imprese come le altre, cioè in agenzie di protezione.

Se dunque la “perfettibilità” delle democrazie liberali non è sufficiente a sanare il vizio della statualità, diventa molto difficile giustificare l’enorme distinguo morale tra entità politiche che, per stessa ammissione dei randiani, risultano tutte illegittime. I libertari non negano che vi siano Stati (quelli maggiormente rispettosi dei diritti di proprietà e della libertà individuale) in cui si vive meglio di altri. Non vi sono dubbi che, tra le tante organizzazioni criminali che vogliono rapinarci e schiavizzarci, ve ne sono alcune meno banditesche ed esose di altre (gli Stati Uniti o la Svizzera sono sicuramente meglio dell’ex Unione Sovietica). Si tratta però di una mera differenza di grado, non di principio: come tale insufficiente a produrre quelle radicali conseguenze d’ordine morale che alcuni oggettivisti pretendono. Quand’anche uno Stato illegittimo risulti solo un po’ meglio di un altro Stato ugualmente illegittimo, non sembrano esserci validi motivi per attribuire al primo delle estesissime autorizzazioni morali a compiere azioni – all’esterno e al proprio interno – che invece sono precluse al secondo.

Scrive infatti Stefano Magni che in una “società libera, un individuo, se aggredito, oltre a conservare il diritto di difendersi da solo, ha diritto a rivolgersi al suo Stato per essere protetto o per invocare giustizia, come se fosse una sua agenzia di protezione, pagata apposta per svolgere quel ruolo. In una società non libera, invece, l’individuo ha semplicemente il diritto di difendersi dal suo governo come da qualsiasi altro criminale”. Il che è come dire che un individuo ha il dovere di combattere con ogni mezzo un feroce criminale che lo taglieggia, ma deve rendere omaggio e sottomettersi a un criminale “dal volto umano” che lo taglieggia un po’ meno. Non solo: le vittime del primo, se non mostrano ardimento nel ribellarsi, rischiano anche di essere considerate da alcuni oggettivisti dei conniventi del criminale cattivo (il dittatore), diventando dei legittimi bersagli delle bombe del criminale buono (il governo democratico). Va dato comunque atto a Stefano Magni di aver qualificato come “deliranti” le posizioni di alcuni allievi della Rand (Peikoff e Ghate), che su queste basi giustificano come “atti morali” i bombardamenti nucleari o a tappeto contro i civili.

Supponiamo che sulla scena internazionale appaia una società anarco-capitalista, o comunque più libera delle attuali liberaldemocrazie anche da un punto di vista randiano: diciamo uno Stato minimo o ultraminimo. Il rischio è che, applicando i principi esposti da Stefano Magni, i governanti dello Stato ultraminimo possano sentirsi in dovere di giudicare come pericolosissimi Stati-predoni le democrazie esistenti (che tassano più del 50 percento del reddito nazionale, limitano fortemente le libertà economiche, prevedono la coscrizione obbligatoria, producono una quantità enorme di burocrazia e regolamentazioni, e mirano all’esportazione del loro modello in tutto il globo anche con la forza), almeno se paragonate ai propri standard. Uno Stato ultraminimo potrebbe considerare la Repubblica italiana una “gabbia di schiavi”? Potrebbe di conseguenza sentirsi moralmente legittimato ad invadere la penisola, magari previo bombardamento di Milano o Bologna, per punire i suoi abitanti conniventi del regime statalista?

Insomma, mi pare che nella trattazione della politica estera esposta da Magni vi sia una tale divaricazione tra due categorie di Stati (quelli qualificati come società libere e quelli catalogati come società non libere), godendo i primi di tali privilegi morali, da svuotare quasi completamente il fiero e rigoroso antistatalismo della dottrina randiana. Cosa rimane dell’affermazione della Rand secondo cui “in ogni epoca e in ogni paese i danni arrecati dai criminali all’umanità sono infinitesimali se confrontati con gli orrori perpetrati dagli Stati”, quando in politica estera alcuni di essi (le liberaldemocrazie) appaiono invece agire come soggetti angelicati? Nelle analisi di politica interna il governo statunitense viene descritto dai randiani come la “minaccia potenzialmente più pericolosa ai diritti individuali”, che sta conducendo il paese sulla via del socialismo e del collettivismo; ma quando si affrontano temi di politica internazionale, lo stesso governo viene tratteggiato come un eroico liberatore di schiavi.

Magni afferma inoltre che “un individuo, in una società libera, non può impugnare le armi contro il suo governo, né per sostituirlo militarmente con un altro governo, né per secedere da esso…In una società libera il diritto di autodeterminazione, se fatto valere con l’uso della forza, implica solo l’aggressione, gratuita e ingiustificata, di una parte della popolazione contro il suo governo”. Effettivamente nessun libertario ha mai sostenuto l’uso della violenza politica: non tanto per una valutazione positiva delle istituzioni statali entro cui vive, ma per una ragione di proporzionalità tra offesa e difesa. Per i libertari la legittima difesa autorizza gli individui a colpire con le armi un governo terroristico che rappresenti una minaccia per la propria vita, ma non un governo che si limita a derubarti o comandarti. Come lo stesso Magni ha affermato giustamente in un’altra occasione, “non sembra che per un libertario le bombe o il terrorismo siano una risposta legittima ad un furto o ad una rapina”. Rimane comunque aperta la strada per ogni azione non violenta mirante a perseguire, anche attraverso la secessione, quello che Herbert Spencer ha definito come “il diritto di ignorare lo Stato”: resistenza passiva, obiezione fiscale e così via.

Magni scrive infine che questa posizione randiana concorda con quella dell’uomo medio, il quale ha sempre diviso il mondo in Stati buoni e Stati cattivi, e si è sempre felicitato della caduta dei tiranni. Questo sarà anche vero, ma non è sufficiente a dimostrare che quest’uomo comune desideri partecipare in prima persona o pagare di tasca propria per la caduta di un dittatore lontano. La storia, anche a noi più recente, ci insegna che le popolazioni hanno sempre visto le guerre come fonti di grossi guai, e vi sono quasi sempre state trascinate controvoglia dalle proprie élite politiche. L’isolazionismo rothbardiano sembra pertanto essere molto più in sintonia con la saggezza istintiva di quella che Guglielmo Giannini chiamava “la folla”, secondo cui è buona regola di vita impicciarsi il meno possibile negli affari degli altri.

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