Guglielmo Piombini – L’ANTIAMERICANISMO AMERICANO CHE STRAPARLA EX CATHEDRA

Guglielmo Piombini – L’ANTIAMERICANISMO AMERICANO CHE STRAPARLA EX CATHEDRA

Il Foglio, 13 aprile 2006

Nel gennaio 2005 il professor Ward Churchill dell’Università del Colorado, invitato a parlare agli studenti di un college, paragonò le vittime dell’attentato dell’11 settembre ai burocrati nazisti. Secondo Churchill i “piccoli Eichmann” che lavoravano alle Twin Towers si meritavano di morire, perché erano agenti consapevoli di un sistema capitalistico globale che riduce il mondo alla fame. Quelle affermazioni provocarono nel paese una fortissima indignazione, che costrinse alle dimissioni tutti i responsabili della vicenda. Si aprì anche un’inchiesta sul modo in cui Ward Churchill aveva ottenuto la cattedra universitaria.

L’episodio spinse David Horowitz, noto attivista per i diritti civili e fondatore della New Left negli anni Sessanta, oggi vicino ai neocon e presidente del Center for the Study of popular Culture, a svolgere una ricerca sui rischi di indottrinamento ideologico cui sono sottoposti gli studenti americani. Le conclusioni contenute nel suo nuovo libro “The Professors. The 101 Most Dangerous Academics in America”, appena pubblicato dalla casa editrice Regnery di Washington, dimostrano che il caso Churchill è tutt’altro che isolato, e che l’egemonia culturale della sinistra più radicale all’interno dei college e delle università statunitensi è più estesa di quanto si pensi.

Ci sono anche i fan di Osama

Horowitz traccia i profili di centouno accademici che dalle cattedre delle più prestigiose istituzioni scolastiche e universitarie propagandano idee estremiste e violente. Nell’elenco compaiono nomi celebri (come Noam Chomsky, Paul Ehrlich, Norman Finkelstein, Erich Foner, Howard Zinn), direttori di dipartimenti, vincitori di premi accademici, presidenti di importanti associazioni professionali come l’American Historical Association. Le loro lezioni si riducono, molto spesso, a comizi politici in cui si processano il capitalismo, il cristianesimo, gli Stati Uniti, Israele e l’Occidente.

Il professor Joseph Massad, umanista alla Columbia University di New York, è impegnato in una campagna ferocemente anti-israeliana. Il sociologo marxista James Bellamy Foster dell’università dell’Oregon insegna invece ai suoi allievi che il crollo dell’Urss ha rappresentato una grave battuta d’arresto per il progresso umano, mentre il suo collega Rick Eckstein della Villanova University basa i suoi corsi integralmente sui testi di Lenin, non per criticarli ma per dimostrarne la validità. Non sono rari i casi di cattedratici che esultano pubblicamente all’uccisione dei soldati americani: Bill Ayers, professore di pedagogia università dell’Illinois, è un ex membro del gruppo terroristico Weatherman che si dichiara dispiaciuto di non aver tirato abbastanza bombe durante la sua militanza; l’antropologo Nicholas De Genova ha diffuso tra gli studenti della Columbia University lo slogan “un milione di Mogadiscio” per celebrare l’agguato che nel 1993 costò la vita a 18 soldati americani in Somalia.

Non mancano nemmeno gli apologeti del jihad contro l’Occidente, i sostenitori di Osama Bin Laden o i promotori delle idee dei mullah iraniani: l’economista M. Shalid Alam (università di Boston) ha affermato che quella di Al Qaeda è una guerra santa difensiva nei confronti dell’Occidente, e ha paragonato i terroristi dell’attentato di New York ai Padri Fondatori americani; il professor Hamid Algar dell’università di Berkeley ha insultato come “porci, stupidi e bugiardi che si meriterebbero di essere massacrati” gli studenti armeni che commemoravano il genocidio perpetrato dai turchi; nella stessa università il professor Hatem Bazian ama citare agli studenti i versi di Maometto contro gli ebrei, ed esorta a scatenare un’intifada in America; lo storico di Stanford Joel Beinin, nato in una famiglia di sionisti, è oggi diventato un ammiratore dei kamikaze islamici e appare su Al-Jazeera per denunciare l’imperialismo americano; Sami al-Arian, insegnante di ingegneria alla South Florida University, è stato arrestato nel febbraio 2003 perché riconosciuto a capo di un’organizzazione terroristica palestinese responsabile di attacchi suicidi in Medio Oriente che sono costati la vita a più di cento persone.

Nelle facoltà umanistiche impazza il filone più classico della political correctness: la professoressa Oneida Meranto del Metropolitan State College di Denver insegna ai suoi allievi che gli unici contributi portati dagli euro-americani nel nuovo mondo sono stati il genocidio culturale e le gerarchie razziali e sessiste; Leonard Jeffries (City University di New York) spiega che i neri sono moralmente e culturalmente superiori ai bianchi, e che gli ebrei sono “una razza di farabutti e di animali che hanno sottratto l’Africa alle popolazioni nere”; Angela Davis, ex pantera nera e icona della sinistra radicale, oggi docente all’università di Santa Cruz, è leader di un movimento che chiede la liberazione dalle carceri di tutti i criminali appartenenti a minoranze etniche, perché prigionieri politici dello Stato razzista americano.

Muisca rap al posto dell’inglese

C’è poi il professor Jose Angel Gutierrez dell’università texana di Arlington, che consiglia ai messicani di sparare ai gringos bianchi e a riprendersi gli stati del sud; Amiri Baraka della Rutger University è stato premiato per le sue poesie in cui esorta all’uccisione di uomini bianchi e allo stupro delle loro donne; Ron Karenga (università di Long Beach), l’inventore della festa del Kwanzaa che gli afro-americani dovrebbero celebrare al posto del Natale, è stato arrestato nel 1971 per aver imprigionato e torturato due ragazze appartenenti alla sua organizzazione radicale; Priya Parmar (Brooklyn College) insegna agli studenti la musica rap al posto dell’inglese classico, considerato la lingua degli “oppressori”; la professoressa di diritto dell’università della Pennsylvania Regina Austin ha scritto che la comunità nera dovrebbe trovare una via di mezzo tra “il rispetto della legge e le forme più estreme di trasgressione”.

Vi è infine un pittoresco drappello di accademici, tra i quali si distinguono la professoressa Gayle Rubin, antropologa dell’università del Michigan, la quale sostiene che perseguire i molestatori di bambini non sia altro che “una selvaggia caccia alle streghe”; Michael Warner, professore di inglese alla Rutgers University, che esorta i suoi allievi a partecipare ad incontri omosessuali di gruppo con stranieri; Michael Vocino, militante gay, professore di scienze politiche all’università del Rhode Island, che in aula parla quasi soltanto delle proprie pratiche sessuali.

I “professori pericolosi” che possono offendere impunemente i bianchi, gli eterosessuali, i cristiani, gli ebrei, secondo Horowitz sono accomunati (salvo poche eccezioni) da titoli eccessivi rispetto alla effettiva produzione scientifica, dalla politicizzazione dei corsi di studi, dall’abbandono di ogni standard di ricerca accademica. Horowitz spiega che l’occupazione delle cattedre universitarie da parte dei radicals, iniziata durante la contestazione degli anni Settanta, prosegue con successo grazie ai meccanismi di cooptazione interni alle università. In questo modo i docenti di idee conservatrici o che simpatizzano per i repubblicani sono stati sistematicamente esclusi, discriminati e isolati per ragioni politiche estranee ad ogni valutazione accademica.

Secondo Horowitz, il rapporto tra insegnanti progressisti e conservatori è in media di cinque a uno, con punte di nove a uno o, in alcune facoltà, addirittura di trenta a uno. Questo significa che, sui 617.000 professori che insegnano nei college e nelle università americane, i cattivi maestri paragonabili ai “101 professors” ritratti nel libro sono circa trentamila. 

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