ABOLIAMO L’ADOLESCENZA

ABOLIAMO L’ADOLESCENZA

“Il branco”, “generazione degenerata”, “bulli”, “selvaggi con il telefonino”, sono solo alcune delle definizioni usate dai giornalisti per descrivere un ceto giovanile che sale sempre più spesso agli onori delle cronache per delitti efferati, comportamenti viziosi e incivili, atti di vandalismo, gesti di prepotenza verso i deboli, atteggiamenti autodistruttivi, esibizionistici, parassitari. Nelle inchieste giornalistiche gli adolescenti appaiono spesso cinici e annoiati della vita, gregari e conformisti, indifferenti alla religione, sprezzanti delle tradizioni e della cultura (l’interesse per i libri e per la lettura, ad esempio, subisce un vero e proprio crollo con il passaggio dall’infanzia all’adolescenza).

La mentalità dominante tende a idealizzare e ad assolvere i giovani che contestano le “imposizioni” tradizionali, famigliari e sociali. La ribellione adolescenziale, ci assicurano gli psicologi nei talk-show, è un passaggio “formativo” inevitabile e benefico per l’individuo e la società. La durata dell’adolescenza, per di più, viene estesa in continuazione: in origine gli adolescenti erano solamente i “teen-ager” dai dodici ai diciotto anni, ma oggi sono considerati adolescenti anche gli ultratrentenni! Nel 2002 l’Accademia Nazionale delle Scienze statunitense ha ridefinito l’adolescenza come l’età che va dai dodici ai trent’anni, mentre secondo una ricerca della MacArthur Foundation la transizione all’età adulta non termina prima dei trentaquattro anni.

Due libri usciti di recente negli Stati Uniti hanno messo però in discussione questa visione lassista e indulgente dell’adolescenza: The Case Against Adolescence (Quill Driver Books, Sanger 2007) dello psicologo Robert Epstein, e The Death of the Grown-Up. How America’s Arrested Development Is Bringing Down Western Civilization (St. Martin Press, New York 2007) dell’ editorialista del «Washington Times» Diana West.

La tesi principale del libro di Robert Epstein è che l’adolescenza non è un dato biologico, ma una costruzione culturale che allunga artificialmente il periodo dell’infanzia. Il concetto di adolescenza non esisteva prima del ventesimo secolo, e molte culture non hanno neanche un termine per definirla. Nelle società tradizionali i giovani venivano integrati nella società degli adulti appena dimostravano di esserne capaci, e i fenomeni di ribellione o di disagio giovanile erano inesistenti. Non esisteva una “cultura giovanile” perché i giovani passavano quasi tutto il loro tempo insieme agli adulti, in una società modellata dai valori di questi ultimi.

Oggi invece negli Stati Uniti gli adolescenti vivono a contatto con i loro coetanei in media 65 ore alla settimana, contro le 4 ore alla settimana di un secolo fa.

Questa separazione dei giovani dagli adulti, secondo Epstein, ha avuto origine con la legislazione che ha progressivamente innalzato l’età minima per lavorare e l’età dell’obbligo scolastico, e si è poi approfondita con la mentalità permissiva del secondo dopoguerra. Invece di tutelare i giovani, l’esclusione degli adolescenti dal mondo degli adulti ha finito tuttavia per generare frustrazione: “Immagina come puoi sentirti se il tuo corpo e la tua mente ti dicono che sei un adulto, ma gli adulti attorno a te continuano a dirti che sei ancora un bambino. È questa infantilizzazione forzata  spiega Epstein  a rendere molti giovani arrabbiati o depressi. Più vengono trattati come bambini, più psicopatologie mostrano”.

Il paese dei balocchi

Oggi gli adolescenti vivono in una zona franca nella quale vige l’irresponsabilità quasi completa. Possono spendere molti soldi non propri, stare alzati tutta la notte, fare sesso liberamente, sfrecciare con dei bolidi a gran velocità, sballarsi con alcolici e droghe nei rave-party: tutti comportamenti balordi che non sarebbero tollerati in nessun altro gruppo d’età.

Secondo Epstein l’idea di confinare i giovani per tanto tempo in una sorta di paese dei balocchi non ha senso, perché gli adolescenti sono molto più competenti di quello che si crede. I test dimostrano che gli adolescenti sono pari agli adulti in molte aree di competenza. In alcuni campi, come l’intelligenza, le abilità percettive o la memoria, il picco viene addirittura raggiunto intorno ai 14-15 anni, e poi cala inesorabilmente. Provate a indovinare chi imparerà per primo una lingua straniera, a giocare a scacchi o a usare un apparecchio tecnologico: un quindicenne o un cinquantenne? Eppure, se interrogati, gli adulti sottostimano regolarmente i punteggi ottenuti dagli adolescenti in queste prove.

La ricetta di Epstein per superare la frustrazione e la ribellione dei giovani è quella tradizionale: torniamo a trattarli come adulti e diamogli tutte le responsabilità che desiderano, di lavorare, di possedere proprietà, di firmare contratti, di creare delle imprese, di prendere decisioni sulla propria salute, di vivere e di mantenersi da soli, di sposarsi e di fare figli, e in men che non si dica tutti i petulanti sintomi del “disagio giovanile” svaniranno come nebbia al sole.

La realtà, purtroppo, sembra andare nella direzione opposta, come documenta Diana West nel suo libro dedicato alla “morte dell’età adulta”. Non solo gli adolescenti maturano più tardi, ma gli adulti si mettono sempre più spesso a scimmiottare le mode adolescenziali nei vestiti, nella musica o nei passatempi. Tra gli adulti d’età compresa fra i 18 e i 49 anni sono più numerosi quelli che guardano Cartoon Network della CNN; questa stessa fascia d’età costituisce un terzo dei 56 milioni di americani che assistono al cartone animato SpongeBob, ideato per bambini dai sei agli undici anni; l’età media dei giocatori di videogiochi era di diciotto anni nel 1990, oggi è di trent’anni; molti adulti, anche a 25 anni, continuano a leggere soltanto narrativa giovanile rivolta ai teen-ager.

In cauda semper islam

Il discredito dell’età adulta sorto all’epoca della contestazione giovanile, osserva la West, ha provocato il declino delle virtù legate alla maturità, in favore della gratificazione istantanea, dell’impazienza per i limiti posti dalla realtà, e dell’ossessione per il proprio io tipica dei teen-ager.

Un aspetto saliente della cultura occidentale, prima della rivoluzione culturale di quarant’anni fa, era riassunto nella formula “farsi una vita”. Moltissimi romanzi letterari ruotavano intorno all’idea che l’esistenza individuale fosse un’opera in via di progressiva realizzazione. La vita aveva un inizio, un intermezzo e una fine. Passando attraverso queste tappe consecutive l’uomo fortificava il proprio carattere e perfezionava, grazie all’accresciuta l’esperienza, la propria personalità. Al contrario, osserva la West, l’attuale visione della vita come eterna adolescenza si caratterizza proprio per la sua assenza di progetto: è processo senza culmine, viaggio senza destinazione, essere senza divenire.

Hollywood, i giornali e la televisione continuano però ad esaltare la cultura ribellistica giovanile degli anni Sessanta e a ridicolizzare l’età adulta, soprattutto la figura paterna, perché legata al concetto di autorità. Si assiste così al patetico spettacolo di vecchioni, come il sessantacinquenne Paul McCartney, il settantenne Jack Nicholson o l’ottantaduenne Paul Newman, che ancora si atteggiano a giovani ribelli in lotta contro l’establishment.

In queste condizioni, conclude la West, l’Occidente non ha alcuna possibilità di affrontare le sfide del futuro, in particolare la gravissima minaccia portata dall’islam: “L’illimitata espansione dell’influenza islamica in Occidente, attraverso mezzi violenti (il terrorismo) e pacifici (la demografia) potrebbe segnare l’epilogo della civiltà occidentale. Occorrono delle donne e degli uomini maturi che ne prendano atto, non dei bambini che si nascondono di fronte alla realtà, perché le civiltà che rinviano per sempre l’età adulta non giungeranno mai alla maturità”.

Il Domenicale, 23 febbraio 2008

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