BENIAMINO DI MARTINO – Rivoluzione Del 1789

 17,00

La cerniera della modernità  politica e sociale

Leonardo Facco Editore/goware – 2020, Pagine 254

Una profonda riflessione liberale sulla Rivoluzione francese

 

COD: 018-1451 Categoria:

Descrizione

Oh Liberté, que de crimes on commet en ton nom!

Marie-Jeanne Roland de la Platière

La Rivoluzione francese ha scompaginato l’intera storia dell’umanità. Come è stato possibile che una serie di eventi di efferata brutalità, o di indubbia immoralità, siano stati recepiti nella coscienza moderna in una luce così positiva? La aprioristica glorificazione del 1789 sconfessa proprio la filosofia che l’ha ispirata. I Lumi si proponevano di rischiarare la ragione ottenebrata dai pregiudizi. La rivoluzione giacobina è stata generalmente intesa come una grande affermazione dei diritti individuali. In realtà essa ha rappresentato la imponente accelerazione del centralismo statalista che ha ridotto la persona alla totale dipendenza dal potere politico. Strana emancipazione quella avviata nel 1789.Di Martino passa sinteticamente in rassegna la vicenda dell’Ottantanove francese attraverso eventi e tematiche particolarmente rivelatrici sulla natura dell’ideologia che vi si affermò.

1 recensione per BENIAMINO DI MARTINO – Rivoluzione Del 1789

  1. Guglielmo Piombini

    Recensione di Guglielmo Piombini

    Rivoluzione del 1789. La cerniera della modernità politica e sociale, il libro che Beniamino Di Martino ha pubblicato con l’editore Leonardo Facco di Treviglio (BG), è una brillante analisi sul significato e sulle conseguenze di quell’evento epocale che per gli storici segna l’inizio dell’era contemporanea. Di Martino prende in considerazione tutte le più importati opere critiche sulla Rivoluzione francese, sia d’impostazione progressista che “revisionista”, e sviluppa una posizione personale nella quale spiccano alcune tesi controcorrente che meritano di essere indagate da vicino.

    1) L’insostenibilità dell’interpretazione agiografica.

    Lo scopo della ricerca scientifica, scrive Di Martino, è quella di mettere in dubbio i luoghi comuni, far parlare i fatti e i documenti, far tacere i pregiudizi e i tabù. Lo storico serio non deve farsi influenzare dall’opinione dominante, che di solito coincide con il potere culturale prevalente. Questo amore per la verità distingue la scienza dal fanatismo e l’onestà intellettuale dall’ostinazione ideologica. La storiografia contemporanea sulla rivoluzione del 1789 purtroppo non ha brillato di queste virtù, e ha spesso denigrato i dissidenti come “contro-rivoluzionari” (de Maistre, Burke, de Bonald, Tocqueville, Taine, Chautebriand, Cochin) o “revisionisti” (Gaxotte, Cobban, Furet, Dumont, Chaunu, Tulard, de Viguerie, Bluche, Secher).

    Oggi tuttavia, alla luce dei dati storici acquisiti, molti capisaldi della storiografia ufficiale tramandati nei manuali scolastici non sono più sostenibili. Ad esempio, non è più possibile affermare che la miseria sia stata la causa scatenante della Rivoluzione, dato che la Francia non era affatto un paese povero e arretrato: in realtà “furono le idee, non la fame, a fare la Rivoluzione”. Inoltre è impossibile continuare a presentare le masse popolari come protagoniste della Rivoluzione: la Bastiglia, ad esempio, venne presa da una piccola feccia di facinorosi sanguinari, e tutta la vicenda si svolse in maniera molto diversa da quella mitizzata dai cantori della Rivoluzione. Le vere sollevazioni popolari si verificarono nel campo opposto, con le ribellioni che esploderanno un po’ in tutta la Francia, e che verranno soffocate in maniera spietata e indiscriminata, particolarmente nella Vandea: un genocidio che anticipò e fece da modello agli stermini ideologici compiuti dai regimi totalitari nel XX secolo.

    Non è quindi più accettabile l’interpretazione agiografica degli storici d’impostazione marxista come Aulard, Mathiez o Lefebvre, che continuano a presentare la Rivoluzione come l’evento salvifico che ha sradicato per sempre l’oscurantismo feudale, realizzando una nuova società fondata sui principi di libertà e uguaglianza. Abbagliati da questo traguardo luminoso, gli storici progressisti hanno finito per giustificare tutto: il Terrore, le ghigliottine, il fanatismo ideologico dei giacobini, le carceri piene di “nemici della nazione”, i genocidi, le confische e i saccheggi, l’inflazione devastante, la penuria dei beni, la fame e la miseria, la guerra perpetua fino al dispotismo sanguinario di Napoleone.

    2) La Rivoluzione non ha abolito il feudalesimo

    Sulla scia dei migliori studiosi liberali come Tocqueville e Furet, Di Martino critica l’idea che la Rivoluzione abbia abbattuto il feudalesimo. In realtà “l’antico regime” contro cui i rivoluzionari scagliavano le loro accuse aveva poco di antico, perché gli ordinamenti della Francia medievale erano già stati ampiamente distrutti dall’accentramento assolutistico del ‘600 e del ‘700. All’origine dei mali che hanno generato la Rivoluzione francese, spiega Di Martino, non vi era la società medievale o la monarchia feudale con i suoi contrappesi e i suoi correttivi interni, ma l’arrogante e tracotante monarchia assoluta, eversore di quella tradizionale. Durante il Medioevo i re francesi non disponevano di un potere regolare di tassazione, di un esercito e di una burocrazia permanente. Solo in epoca moderna riuscirono a sottomettere la nobiltà e i corpi sociali autonomi come la Chiesa, i parlamenti, le corporazioni, le città.

    Alla vigilia della Rivoluzione, ricorda Di Martino, esisteva quindi un forte e giustificato malcontento nei confronti di quei processi che avevano accompagnato il consolidamento del moderno Stato amministrativo: l’aumentata fiscalità, la riduzione delle autonomie locali, il parassitismo degli aristocratici divenuti cortigiani, l’arbitrio dei funzionari regi. A queste ingiustizie si poteva rimediare con riforme liberalizzatrici che restaurassero le antiche libertà tradizionali, come l’inglese Edmund Burke aveva suggerito ai francesi. La Rivoluzione invece accelerò in maniera vorticosa il processo di centralizzazione del potere, e condusse la Francia in un vicolo cieco. Se prima del 1789 la Francia primeggiava sul piano culturale ed era un paese relativamente prospero e popoloso (aveva probabilmente il doppio o il triplo degli abitanti rispetto all’Inghilterra), con la Rivoluzione subì un tracollo demografico ed economico dal quale non si riprese più.

    Credo che la Francia abbia perso la sua ultima occasione nel 1776, quando il ministro delle finanze Jacques Turgot fu costretto a dare le dimissioni in seguito alla sollevazione dei ceti privilegiati contro il suo vasto programma di liberalizzazioni. Turgot, nominato Controllore Generale delle finanze dal re Luigi XVI il 24 agosto 1774, fu una delle personalità più geniali del suo tempo (secondo Murray N. Rothbard fu un economista di gran lunga superiore ad Adam Smith). Turgot aveva una fede incrollabile nel laissez-faire, e i sui celebri editti del 1776 – con i quali liberalizzava il commercio del grano, aboliva le corvée a carico dei contadini, abrogava le norme corporative, riduceva le cariche e le spese statali superflue – gli diedero il sostegno dei ceti produttivi, ma gli attirarono l’opposizione coalizzata della regina, dei nobili, del clero e di tutti coloro che godevano di monopoli, incarichi pubblici o rendite di posizione. Il 12 maggio 1776 il re cedette a queste pressioni e licenziò Turgot, segnando così il destino della Francia e della monarchia. Molti osservatori del tempo, tra i quali Voltaire, Federico II di Prussia e Maria Teresa d’Austria, compresero che la caduta di Turgot presagiva il crollo della Francia.

    Turgot morì il 18 marzo 1781 deluso e sofferente, non immaginando che nel secolo successivo molte delle sue idee sarebbero state accettate e sviluppate in Inghilterra e negli Stati Uniti, le due grandi potenze industriali dell’epoca liberale classica. Il 1776 – l’anno della Dichiarazione d’Indipendenza americana, della pubblicazione del La ricchezza delle nazioni di Adam Smith e della fine dell’esperienza riformatrice di Turgot – fu un bivio storico nel quale i paesi anglosassoni e la Francia presero strade opposte. La Francia sprofonderà nella catastrofe della Rivoluzione e delle guerre napoleoniche, perdendo per sempre il suo primato.

    3) La Rivoluzione non portò libertà e uguaglianza.

    Secondo il motto rivoluzionario, la Libertà fu la prima grande conquista dell’89. Considerato però il numero di vittime che ha provocato, si tratta di una ben strana libertà. Quali libertà avevano guadagnato i lionesi e i vandeani, così come gli italiani e gli altri popoli invasi dalle armate rivoluzionarie, massacrati perché si ribellavano all’introduzione della coscrizione militare, all’aumento della tassazione, ai saccheggi, alla scristianizzazione forzata e alla distruzione delle proprie tradizioni di vita? Che maggiori libertà avevano i cittadini francesi in balia del Terrore e della legge sui sospetti o costretti a partecipare alle guerre rivoluzionarie in ogni angolo d’Europa?

    La libertà dei rivoluzionari aveva ben poco a che fare con la sua tradizionale concezione di difesa della sfera individuale dal potere. Al contrario, spiega l’autore, il protagonista di questa strana libertà era lo Stato. La Liberté era essenzialmente una questione pubblica, non individuale, e come tale non poteva che essere prodotta e realizzata dallo Stato. Così concepita, finiva con il coincidere con lo stesso Stato, o con la Nazione, o con la Volontà Generale. In nome della libertà fu quindi creata la macchina più assetata di sangue che fino a quel momento la storia avesse mai conosciuto: «La Rivoluzione – scrive Di Martino – è stata la più ampia negazione della libertà individuale che la storia dell’Occidente aveva mai sperimentato sino a quel momento» (p. 124).

    E che dire dell’Egalité? Per Di Martino la proclamazione dell’uguaglianza giacobina rappresentò una sorta di rottura con la tradizione occidentale che, anticipando il comunismo, negava il primato della persona e il suo desiderio di libertà: «Se la grandezza della civiltà occidentale è poggiata sulla libertà individuale, la Rivoluzione ha dato un formidabile arresto con la dichiarazione dell’egalitarismo» (p. 148). Anche se proclamato a parole, l’egualitarismo rimane comunque un principio irrealizzabile e contrario alla natura delle cose. Davvero Robespierre, si chiede l’autore, è uguale ad uno sconosciuto sanculotto? Perché ricordiamo le gesta di Danton e non la data di esecuzione del contadino vandeano? Può mai Napoleone essere considerato intercambiabile con uno dei suoi soldati? In concreto, l’unico tipo di eguaglianza che si realizzò fu quella di essere tutti in balia del dispotismo degli uomini del Comitato di Salute Pubblica.

    Nel tentativo di calcolare i costi sociali della Rivoluzione, l’insigne storico della Sorbona Pierre Chaunu ha ripetutamente sostenuto che la Francia ebbe perdite superiori a quelle, pur ingentissime, che subirà nella Prima Guerra Mondiale. È difficile, a questo punto, non concordare con la conclusione di Di Martino: «Considerando le vittime del Terrore, gli innumerevoli stermini, il genocidio vandeano e gli incalcolabili morti per una guerra durata ventitre anni, davvero è il caso di ripetere che questo macabro risultato è totalmente imputabile al proposito di rendere tutti gli uomini uguali» (p. 161).

    4) Non ci furono due rivoluzioni, ma una sola

    L’autore affronta poi la fondamentale questione della natura della Rivoluzione e delle sue varie fasi. I suoi aspetti più terribili furono una degenerazione, o un esito necessario e inevitabile? Fin dall’inizio gli storici, di destra o di sinistra, si sono divisi tra “unitaristi” e “discontinuisti”. Per i primi la Rivoluzione è un unicum, un blocco in non è possibile distinguere i suoi vari momenti, mentre per i secondi l’evento rivoluzionario era partito bene ma aveva subito una sorta d’impazzimento. Questa seconda tesi, che cerca di salvare la “fase umanitaria” del 1789 e dei suoi “immortali principi” da quella terroristica degli anni successivi, è oggi molto diffusa anche tra gli studiosi del campo liberale e moderato. In passato è stata sostenuta da personalità del calibro di Benjamin Constant (Le reazioni politiche. Gli effetti del Terrore) e di Guglielmo Ferrero (Le due rivoluzioni francesi).

    Di Martino tuttavia respinge questa posizione. A suo avviso non c’è stata nessuna discontinuità tra una rivoluzione buona e una cattiva, perché la seconda era interamente contenuta nel grembo della prima. Egli fa notare infatti come fin dall’inizio le differenze ideologiche fra le varie componenti rivoluzionarie siano state assai flebili. Le diverse fazioni si sono divise sulla velocità da dare al processo di cambiamento, non sui fini da raggiungere. Anche l’anima più moderata, quella dei monarchici foglianti, ha concorso ad accrescere il potere dello Stato centrale e ha condiviso la logica statalista. Pur lottando fra loro per il potere, tutte le fazioni hanno lavorato alla realizzazione del grande progetto rivoluzionario: la creazione di uno Stato onnipotente.

    Il legame tra tutte le fasi della Rivoluzione si coglie anche nella continuità del personale politico e nell’uso dei medesimi mezzi politici. I personaggi che vediamo all’opera nelle prime fasi, osserva l’autore, sono gli stessi che in seguito manifesteranno idee radicali, e anche i mezzi della lotta politica – l’uso dell’intimidazione, dell’intolleranza, della faziosità, della menzogna, della propaganda settaria, della violenza – non apparterranno solo al periodo robespierriano. È significativo, nota Di Martino, che Edmund Burke scrisse e pubblicò le sue celebri Riflessioni sulla Rivoluzione francese nel 1790, ben prima del periodo del Terrore. Il grande pensatore inglese previde non solo l’esito sanguinario della Rivoluzione, ma anche la finale tirannia militare. Date le premesse, il seguito degli avvenimenti era dunque prevedibile.

    La conclusione di Di Martino è che la vicenda giacobina non ha mai avuto alcun autentico amore per la libertà. Il suo vero e unico effetto è stato quello di rafforzare il centralismo governativo e la radicalizzazione del potere dello Stato. Con la Rivoluzione il processo di statalizzazione della società divenne irrevocabile e il processo di accentramento acquisì la sua vittoria decisiva. La Rivoluzione francese rappresenta la madre di tutti i totalitarismi successivi, e la storia del comunismo del XX secolo sarebbe incomprensibile senza il precedente francese. Questi sviluppi, secondo l’autore, erano già scritti nell’ideologia dei philosophes francesi.

    C’è un Illuminismo da salvare?

    Mi chiedo però se non sia possibile attenuare il verdetto di condanna comminato da Di Martino al movimento dei Lumi, almeno per quelle espressioni che non condussero agli esiti catastrofici della Francia, come l’Illuminismo scozzese, americano, italiano o tedesco. Anche all’interno dell’Illuminismo francese ci furono delle componenti alle quali difficilmente si possono attribuire responsabilità per gli orrori della rivoluzione. Penso ad esempio al movimento degli “Ideologi”, che in Francia rappresentò l’ultima generazione dei Lumi, e comprendeva intellettuali come Destutt de Tracy, Condorcet, Sieyés, Daunou, Volney, Say e scienziati come Lamarck, Lavoisier, Cabanis, Pinel.

    Gli Ideologi furono la coscienza critica della Rivoluzione francese. Lontani anni luce da ogni forma di opportunismo, incarnarono un’onestà intellettuale e una probità politica improntate al più raro interesse personale, tanto da subire l’avversione implacabile prima di Robespierre poi di Napoleone. Il circolo di Auteuil, che prendeva il nome dalla casa di Madame Helvetius nella quale si riunivano regolarmente, divenne un punto di riferimento del pensiero riformista non solo francese, ma anche europeo e americano. Benjamin Franklin e Thomas Jefferson frequentarono il circolo durante le loro missioni diplomatiche a Parigi. Jefferson in particolare divenne un grande estimatore di Destutt de Tracy, l’inventore del termine “ideologia” (inteso come “scienza della formazione delle idee”), e si impegnò a far conoscere il suo pensiero negli Stati Uniti, traducendo di propria mano le sue opere principali, compreso lo straordinario trattato di economia politica. Durante la fase del Terrore, Condorcet e Lavoisier persero la vita a causa delle loro idee, mentre molti altri componenti de gruppo vennero imprigionati. Destutt de Tracy fu condannato a morte, e si salvò solo grazie alla caduta di Robespierre.

    Conclusioni

    Rivoluzione del 1789 è un libro che merita di essere letto dalla prima all’ultima pagina, perché si fonda su una solida base di ricerca storiografica e offre dei punti di vista spesso in contrasto con quelli dominanti, ma sempre ben argomentati ed esposti con chiarezza e linearità. Chiunque voglia comprendere la storia e le cause della definitiva affermazione della statualità moderna, farebbe bene a leggere questo libro.

    (Il Miglioverde, 2 aprile 2015)

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