DONNO, ANTONIO – Barry Goldwater

 18,00

Valori americani e lotta al comunismo

La figura politica e intellettuale del candidato repubblicano alla presidenza che, nel 1964, rilanciò il conservatorismo negli Stati Uniti

Edizioni: Le Lettere   Anno: 2008   pag. 125

COD: 018-834 Categoria:

Descrizione

Le elezioni presidenziali americane del 1964, che seguirono l’assassinio di John F. Kennedy, videro l’emergere di una figura atipica nel panorama politico americano, il senatore dell’Arzona Barry M. Goldwater, che sfidò, perdendo, l’erede Kennedy e della politica newdealista, Lyndon B. Johnson. Nonostante la secca sconfitta, Goldwater operò una vera rivoluzione nel “Grand Old Party”, il Partito Repubblicano e vi impresse un segno conservatore che restò sottotraccia per più di un quindicennio, per poi emergere prepotentemente con il trionfo di Ronald Reagan nel 1980. Il successo di Reagan non può essere spiegato che alla luce delle intuizioni e del programma politico del 1964 di Goldwater, esplicitato nel successo editoriale senza precedenti “The Conscience of a Conservative” (1960) e in “Why Not Victory?” (1962). In queste opere mise a punto i principi del suo conservatorismo: antistalinismo, recupero dei principi del liberalismo americano delle origini, decentramento dei poteri, diritti degli Stati, individualismo; e, in politica estera, la lotta senza compromessi nei confronti del comunismo.

1 recensione per DONNO, ANTONIO – Barry Goldwater

  1. Libreria del Ponte

    Recensione di Guglielmo Piombini

    Le elezioni presidenziali americane del 1964, che seguirono l’assassinio di John Kennedy, videro la vittoria “a valanga” del candidato democratico Lyndon Johnson su quello repubblicano, il senatore dell’Arizona Barry Goldwater, il quale vinse in soli sei stati raccogliendo il 39 per cento del voto popolare. Malgrado le dimensioni della sconfitta, la sua corsa alla presidenza rappresentò però un definitivo punto di svolta nella politica americana. Il significato della rivoluzione operata da Goldwater viene spiegato dal professor Antonio Donno, docente presso l’Università del Salento e tra i massimi esperti del pensiero politico americano, nella sua bella monografia Barry Goldwater. Valori americani e lotta al comunismo (Le Lettere, Firenze, 125 pp., euro 18,00).

    Barry Goldwater si fece interprete dei sentimenti conservatori dell’America dell’Ovest e del Sud-Ovest all’interno di un partito, il Grand Old Party, che era stato sempre dominato dalle elite finanziarie e industriali del Nord-Est. Ma soprattutto fu il primo a sfidare la filosofia statalista del New Deal che da almeno trent’anni dominava la politica statunitense, e che non era stata sostanzialmente intaccata durante gli otto anni dell’amministrazione repubblicana di Eisenhower. Goldwater riuscì infatti ad operare una fusione tra le istanze conservatrici (l’anticomunismo senza compromessi, il tradizionalismo morale, l’elogio dell’eredità cristiana e la fedeltà ai valori dell’Occidente) e quelle libertarie (l’individualismo, l’esaltazione del libero mercato, l’antistatalismo, la critica del welfare-state) che non andò più dispersa e che riemerse prepotentemente quindici anni dopo, nel 1980, con la vittoria di Ronald Reagan.

    Il successo di Reagan, infatti, non può essere spiegato se non alla luce del programma politico che Goldwater mise a punto nei suoi due libri The Coscience of a Conservative del 1960, che ebbe un successo editoriale senza precedenti (tre milioni e mezzo di copie vendute fino al 1964, mentre la traduzione italiana, pubblicata dalle Edizioni del Borghese, fu completamente snobbata), e Why Not Victory? del 1962, dove espose la sua linea di politica estera di duro contrasto al comunismo.

    Riprendendo i principi originari del liberalismo americano, Goldwater scrisse con grande temerarietà un manifesto politico di un violenza concettuale inaudita, dopo tanti anni di quieto conformismo statalista. Il suo coraggio porterà i conservatori americani a sostenere con entusiasmo la sua candidatura alle presidenziali del 1964. Nel mondo intellettuale lavorarono per lui le migliori menti dell’epoca, come William Buckley, Harry Jaffa, Brent Bozell, Karl Hess, Frank Meyer, Milton Friedman, Ayn Rand. I democratici scateneranno invece contro Goldwater una campagna di denigrazione forsennata, sul tipo di quella messa in atto contro il senatore Joe McCarthy.

    Contrapponendosi ai liberals impegnati in uno sforzo collettivo per imporre il progresso, il conservatorismo di Goldwater poneva l’accento sullo sviluppo spirituale dell’individuo e riaffermava l’insegnamento cristiano sulla sacralità della persona umana. Si trattava, spiega Antonio Donno, di una testimonianza di capitale importanza, che riposizionava il fattore religioso al centro dell’azione politica. Il ritorno alle matrici giudaico-cristiane della nazione americana produrrà infatti nei decenni successivi un vero terremoto nell’approccio di molta parte dell’elettorato americano alla politica.

    Inoltre, insistendo sui diritti inalienabili e di per sé evidenti dell’individuo, il senatore dell’Arizona operava un significativo recupero della tradizione giusnaturalista americana risalente all’epoca coloniale e alla Dichiarazione d’Indipendenza. Quando scriveva che «durante tutta la Storia dell’umanità, le più gravi insidie alla libertà individuale sono partite, sempre, dal Governo», Goldwater si rifaceva esplicitamente alle idee radicalmente antistataliste della Old Right (la vecchia destra anti-rooseveltiana di Frank Chodorov e Albert Jay Nock) e del libertarismo di Ayn Rand e Murray Rothbard. «Come può essere libero un uomo – si chiedeva Goldwater – se i frutti del suo lavoro non sono a sua disposizione perché ne faccia quello che vuole, ma vengono trattati, invece, come parte d’un fondo comune di ricchezza pubblica? La proprietà e la libertà sono inseparabili: quando il governo, sotto forma d’imposte, porta via la prima, invade anche la seconda».

    Questa affermazione ci porta direttamente alla critica dello Stato assistenziale, che Goldwater condannava nella maniera più decisa, non solo perché determinava una vera e propria ingiustizia sociale, umiliando i più capaci e meritevoli a favore di un settore parassitario sempre più vasto, ma soprattutto perché produceva negli individui degli effetti psicologici disastrosi. I sostenitori del welfare state, osserva Goldwater, sanno bene che l’individuo può essere posto alla mercé del governo non solo facendo dello Stato il suo datore di lavoro, ma spogliandolo dei mezzi per provvedere ai suoi bisogni personali e dando al governo la responsabilità di accudire a quei bisogni dalla culla alla tomba. «L’assistenzialismo – scrive Goldwater ne La coscienza di un conservatore – trasforma l’individuo da un essere spirituale, dignitoso, industre, pieno di fiducia in se stesso, in una creatura animale dipendente senza che nemmeno se ne renda conto».

    In sostanza, Goldwater sostiene che il socialismo ottenuto per mezzo dell’assistenza è più pericoloso di quello che risulta dalle nazionalizzazioni, perché l’effetto politico e psicologico del primo è peggiore. In compenso dei benefici l’individuo finisce infatti per concedere al governo il massimo del potere politico. Ancor più dannosa però è l’influenza esercitata sul suo carattere: l’eliminazione di ogni senso di responsabilità per il proprio benessere e per quello della sua famiglia e dei parenti. La puntuale conferma delle previsioni di Goldwater arriverà nel corso degli anni Settanta, quando entreranno a pieno regime le politiche di “guerra alla povertà” introdotte da Lyndon Johnson nel suo progetto di Grande Società. La sfascio delle famiglie dovuta alla scomparsa della figura paterna, l’aumento della criminalità e il degrado morale che da allora hanno cominciato a caratterizzare i sobborghi urbani abitati prevalentemente dalla popolazione nera sono infatti il risultato diretto della deresponsabilizzazione individuale prodotta dall’assistenzialismo statale.

    L’aiuto ai più bisognosi, dice Goldwater, deve essere lasciato nelle mani dei privati, delle associazioni, delle Chiese, degli enti locali, perché gli aspetti materiali e spirituali dell’essere umano sono connessi, e la responsabilità personale di provvedere ai propri bisogni materiali è tutt’uno con la responsabilità di essere liberi: «La libertà politica dell’uomo è illusoria, se egli dipende per i suoi bisogni economici dallo Stato. Le scelte che governano la sua vita sono scelte che egli deve fare: non possono essere fatte da nessun altro, individuo o collettività». I progressisti tendono a guardare soltanto al lato materiale della persona umana, ma – scrive Goldwater riprendendo la lezione del celebre libro di Friedrich von Hayek del 1944, La via della schiavitù – considerare l’uomo parte di una massa indifferenziata significa, alla fine, consegnarlo alla schiavitù.

    In politica estera Goldwater era convinto che la coesistenza pacifica con il comunismo fosse impossibile, perché il totalitarismo sovietico aveva come obiettivo la conquista del mondo. A questa dottrina gli Stati Uniti non potevano opporre la ricerca della pace ad ogni costo, ma una lotta senza quartiere per ottenere la vittoria. L’unica alternativa alla sconfitta totale era la vittoria totale. Queste sue idee provocarono, durante i primi anni ’60 e per tutta la campagna elettorale del 1964, una dura polemica con il senatore democratico William Fullbright, sostenitore di un atteggiamento meno ostile verso il mondo comunista.

    Per Goldwater il mondo libero stava combattendo non una guerra fredda ma una “guerra comunista”, dato che «le regole di questo conflitto ci sono state imposte dall’Unione Sovietica per mezzo di un disegno massiccio volto alla distruzione degli Stati Uniti ed alla dominazione del mondo». Goldwater rigettava con forza l’apertura di Fullbright verso il mondo comunista perché la politica imperialista dell’Unione Sovietica era inseparabile dai suoi presupposti ideologici, ed era quindi impossibile garantire pace, libertà e prosperità al mondo senza la preventiva sconfitta del comunismo.

    Si trattava, secondo il senatore dell’Arizona, di una lotta tra il popolo senza di Dio e il popolo di Dio, tra la schiavitù e la libertà: «Dico che non possiamo vivere con queste due filosofie. Un giorno ve ne sarà una soltanto. Siamo i portatori della civiltà occidentale, il più nobile prodotto del cuore e dell’intelligenza dell’uomo» e per questa ragione «i comunisti non ci seppelliranno. I comunisti rispettano una sola cosa: la forza. E la forza dello spirito è più grande della forza delle armi». Una visione, quella di Goldwater, che anticipa di quasi due decenni le denunce di Ronald Reagan contro l’Impero del Male, e che verrà clamorosamente confermata dagli avvenimenti degli anni ’80 culminati con il crollo del Muro di Berlino.

    In definitiva, Goldwater lasciò un segno sulla politica americana maggiore di ogni altro candidato perdente del ventesimo secolo. Con la sua tenace candidatura il senatore dell’Arizona diede inizio a una controrivoluzione conservatrice i cui effetti durano tuttora. Il suo merito fu quello di stabilire delle solida fondamenta politiche e ideologiche alla rivoluzione reaganiana, e di far comprendere a una generazione di conservatori che la loro era una causa giusta e vincente. Oggi il ricordo delle parole di fede e di coraggio di Goldwater potrebbe nuovamente ispirare l’Occidente nella sfida mortale contro il totalitarismo islamista.

    (Liberal Quotidiano, 28 giugno 2008)

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