DRIESSEN, PAUL – Eco-Imperialismo

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Potere verde morte nera

Le catastrofi provocate dall’esportazione dell’ideologia ambientalista nel mondo. Introduzione di Guglielmo Piombini.

Edizioni: Liberilibri   Anno: 2006   pag. 227

COD: 018-595 Categoria:

Descrizione

«Le idee e le ideologie hanno conseguenze. Le idee e le ideologie estreme hanno conseguenze estreme»: partendo da tale premessa Driessen dimostra che la concezione secondo cui le teorie e i valori ambientali debbano avere la precedenza sul valore della vita umana ha prodotto conseguenze devastanti nei paesi del terzo mondo, e che queste tragedie che colpiscono i paesi più poveri sono la diretta conseguenza dell’imperialismo ecologico promosso dai ricchi e ben finanziati ambientalisti del mondo industrializzato. Quando gli ambientalisti si dichiarano “biocentristi” o sostenitori del “valore intrinseco della natura”, a prescindere da quanto essa possa essere utile all’uomo, occorre rendersi ben conto delle sconvolgenti conseguenze di tale discorso. L’idea del valore intrinseco della natura implica necessariamente il desiderio di distruggere l’uomo e le sue opere, in quanto perturbatrici di quest’ordine. – (Dall’Introduzione di Guglielmo Piombini)

1 recensione per DRIESSEN, PAUL – Eco-Imperialismo

  1. Libreria del Ponte

    Recensione di Novello Papafava

    Eco-imperialismo e dramma del potere, “Il Domenicale”, 3 febbraio 2007

    Oggi un film come Pulp fiction, in cui schizzano cervelli umani, viene considerato uno spasso geniale, mentre uno splatter di balene e foche sarebbe ritenuto una brutalità impensabile. Oppure un produttore di costosissime mele biologiche piene di parassiti suscita gran stima, mentre una catena di fast food che nutre e soddisfa milioni di consumatori è circondata da disapprovazione. Una donna che abortisce viene vista come moderna ed emancipata, ma se la stessa abbandona un cane in autostrada merita la massima severità. Questi giudizi perversi dei nostri tempi sarebbero inspiegabili senza risalire al notevole ascendente che, negli ultimi trent’anni, si è guadagnato il movimento ambientalista.

    Di assurdità della nostra epoca ce ne sono diverse altre, sia chiaro: vi sono intellettuali che hanno aderito al comunismo, la filosofia che ha causato più crimini nella storia, che ancora insegnano nelle università, ricoprono le più alte cariche dello Stato e godono di prestigio. Ma non meno grave è il fatto che pochi si rendano conto della violenza insita nella dottrina ecologista. Il fondamentale testo “Eco-imperialismo – Potere verde morte nera” di Paul Driessen, tradotto e curato da Guglielmo Piombini, pubblicato grazie a Liberibri, mette in luce il contrasto insanabile tra l’obiettivo di preservare la natura incontaminata e il rispetto della vita umana. È sufficiente leggere il capitolo cinque del volume per scoprire, ad esempio, cosa ha comportato il bando alla produzione del Ddt del 1972, voluto per proteggere talune specie animali, da parte dell’autorità dell’Environmantal Protection Agency. Il divieto ha causato una proliferazione della zanzara anofele e quindi l’insorgenza di nuove epidemie di malaria a causa delle quali, dagli anni settanta ad oggi, soprattutto nell’Africa Sub Sahariana, sono morti tra i brividi della febbre circa cinquanta milioni di persone (avete letto bene, cinquanta milioni), per metà bambini.

    Un altro caso di eco-imperialismo, da parte dell’establishment ecologista occidentale nei confronti di altre parti del mondo, riguarda i tabù imposti alle colture geneticamente modificate. Driessen documenta come, in alcuni paesi assai poveri, a causa di una dieta a base solo di farina di riso, carente di vitamina A, centinaia di migliaia di giovani perdono la vista e non riescono a raggiungere un corretto sviluppo cerebrale. Il Goldenrice, una specie di riso biotech, arricchito con beta-carotene, potrebbe ridurre notevolmente tali sofferenze senza costi aggiuntivi (tra l’altro, il suo inventore ha generosamente rinunciato al brevetto). Si resta allora senza parole davanti alle criminali opposizioni legali a questa meravigliosa scoperta, secondo le quali il Goldenrice non sarebbe un alimento sufficientemente sicuro.

    L’autore Driessen è un ambientalista pentito che denuncia con coraggio il cinismo dei verdi più radicali; ma, approfondendo la riflessione, egli scopre le ragioni per le quali temere maggiormente quelli moderati. Sono questi ultimi ormai introdotti nel ceto politico che, infatti, concretamente, portano all’approvazione regolamenti tanto pericolosi. Mentre un eccentrico sostenitore della deep ecology, quale David Graber, che inneggia all’estinzione dell’essere umano attraverso virus letali, difficilmente può diventare Ministro dell’ambiente, i più gravi danni li causano i “ragionevoli” e democratici uomini di Stato che, ad esempio, ratificano il protocollo di Kyoto: un trattato internazionale che, razionando pesantemente l’energia, rischia di condannare molti paesi del Terzo mondo ad una perenne povertà (senza modificare granché il clima terrestre).

    Forse una manchevolezza che si può individuare in Eco-imperialismo – Potere verde morte nera, ma sapientemente compensata dall’introduzione di Guglielmo Piombini, autore dalle impeccabili credenziali liberali classiche e libertarie, è l’insufficiente critica ai governi in quanto tali. Il problema che l’umanità si trova ad affrontare, infatti, non è il colore del potere, sia esso verde, rosso o nero; il dramma è l’espansione del potere in sé.

    All’interno di un ordine liberale di governo limitato, basato sul rispetto della proprietà privata e su scambi di mercato, – spiega Piombini – anche un Hitler sarebbe rimasto un modesto artista e Lenin un intellettuale frustrato. E tale dovrebbe restare pure il fanatico nemico dei consumi energetici. È solo quando le tendenze a ledere il prossimo raggiungono le leve del comando, diventando legislazione e costruzione statuale, che si trasformano in tragedie immense. La sola speranza per l’avvenire è creare ordini liberali che limitino al massimo il potere politico-coercitivo e promuovano invece le attitudini creative.

    Recensione di Carlo Stagnaro

    Tra i nemici più acerrimi delle armi da fuoco, specie privatamente detenute, non parliamo poi di quelle adibite a uso sportivo e caccia in particolare, si contano gli ecologisti. Per qualche ragione i gruppi ambientalisti sono riusciti a ritagliarsi, in ogni situazione, dal cinema ai tiggì, il ruolo dei buoni per antonomasia. Chi si oppone agli ecologisti, viceversa, è un nemico dell’ambiente e dell’umanità. Ma le cose stanno davvero così?

    Sul serio è in atto una battaglia che vede da un lato i cavalieri verdi senza macchia e senza paura e dall’altra industrie inquinatrici, cacciatori irrispettosi dell’ambiente, capitalisti senza scrupoli pronti a vender la mamma pur di vedere salire i profitti?

    Paul Driessen (nella foto), studioso delle organizzazioni americane Committee For A Constructive Tomorrow e del Center for the Defense of Free Enterprise, un passato da ecologista alle spalle, pensa che la questione sia più complessa. E non ha esitazione nello stendere nero su bianco tutte le sue accuse nel libro Eco-imperialismo, recentemente pubblicato nel nostro paese dalla Liberilibri di Macerata.

    Per Driessen, la radice dell’ambientalismo va cercata in un attacco alla libertà d’impresa, al libero mercato, alla ricchezza e all’Occidente, che si è tradotta in diverse dottrine tutte collegate all’idea della “responsabilità sociale d’impresa”, cioè la convinzione che la mission delle imprese vada al di là della creazione di valore per gli azionisti: “queste dottrine collegate alla responsabilità sociale d’impresa riflettono primariamente le preoccupazioni, le preferenze e le visioni pessimistiche di un esiguo organico di politici, burocrati, accademici, membri di organizzazioni non governative internazionali e di ricche fondazioni dei paesi sviluppati. Questi autonominatisi guardiani del bene comune hanno poca comprensione (e spesso nutrono una profonda avversione) per le imprese, il capitalismo, il mercato, la tecnologia, il commercio globale e il ruolo vitale dei profitti nel generare innovazione e progresso”.

    A essere profondamente errata è in primo luogo l’idea che la tutela dell’ambiente non possa coniugarsi con lo sviluppo economico. In realtà, come sottolinea l’autore, non può esserci tutela dell’ambiente fuori da una cornice di sviluppo perché, per banalizzare, quando il piatto è vuoto c’è un solo problema: riempirlo. Solo quando i problemi essenziali – cibo, casa, vestiti, mobilità, eccetera – sono risolti si può prestare attenzione a questioni che prima rimanevano del tutto sullo sfondo, come la protezione dell’ecosistema. E i mezzi adottati per far fronte a tale questione sono tanto più innovativi e rivoluzionari quanto più gli inventori sono incentivati dalla carota del profitto. Secondariamente, una volta raggiunta una condizione in cui è possibile prendersi cura dell’ambiente, bisogna comprendere ancora una volta che l’architrave di una politica efficace è la proprietà privata. Se gli individui concreti non possono sfruttare il territorio, che invece è affidata a burocrati irresponsabili o enti impersonali, essi tenderanno a trascurarlo.

    Non è infrequente vedere parchi privati conservati benissimo, e parchi pubblici vittima dell’incuria e della sporcizia. L’inquinamento è spesso frutto di un fallimento nella definizione o nella protezione dei diritti di proprietà. Il caso della caccia è emblematico: spesso accusati di essere cinici individui assetati del sangue di bestioline innocenti, i cacciatori sono invece i primi ad avere un interesse nella conservazione delle specie animali che intendono catturare. Quindi essi sono i soggetti più indicati a gestire le riserve di caccia: viceversa, scelte opposte creano l’incentivo non a conservare, ma a spogliare la fauna, perché chiunque sa che, se non lo farà lui, lo farà qualcun altro. E’ uno splendido esempio, questo, di eterogenesi dei fini.

    Il fatto che la maggior parte dei movimenti verdi sia strabica di fronte a questi snodi cruciali, teorici e pratici, conduce alla situazione paradossale in cui coloro che teoricamente sono maggiormente interessati all’ecologia si trovano a promuovere politiche che invece sono dannose per l’ambiente. Per esempio, iniziative anche lodevoli – come quella di dotare le capanne dei villaggi africani di pannelli solari per la produzione di energia pulita – si riducono a palliativi. Scrive Driessen: essi “non possono certamente fornire energia oltre la necessità di base, dato che l’elettricità fotovoltaica su vasta scala è molto più costosa di quella che si può produrre con il carbone, il gas naturale, il nucleare o gli impianti idroelettrici. Per i paesi poveri con un limitato accesso all’energia, queste non sono considerazioni oziose”. L’energia “pulita” è uno dei tanti lussi che solo nazioni ricche e sviluppate possono permettersi: chi deve quotidianamente battersi con carestie, guerre, povertà senza limiti ha ben altri grilli per il capo.

    Di questo purtroppo molti ecologisti non si rendono conto. E il loro comportamento, per quanto mosso da buone intenzioni, in ultima analisi danneggia proprio coloro che vorrebbe aiutare. “Gli attivisti verdi e i burocrati europei – afferma Driessen – forse non stanno cospirando per affamare milioni di africani sub-sahariani, ma è come se lo stessero facendo”. Infatti, “i gruppi ambientalisti, che incoraggiano i governi a respingere gli aiuti americani di cibo geneticamente modificato”, sono di fatto compartecipi della responsabilità di “mettere a rischio la vita di 14 milioni di persone minacciate dalla carestia nell’Africa meridionale, piagata dalla peggiore siccità del decennio”. Allo stesso modo, la battaglia contro il DDT – uno dei pilastri del moderno movimento ecologista – può avere un senso nei paesi sviluppati, ma in quelli in via di sviluppo, che non possono permettersi insetticidi più costosi e devono quotidianamente combattere con le zanzare portatrici della malaria, equivale a una sentenza di morte che pende sul capo di centinaia di migliaia di africani. Per molti altri implica “solo” la malattia, che li indebolisce, li rende inabili al lavoro e cospira a mantenerli nello stato di miseria in cui si trovano. I numeri parlano da soli: “dove il DDT è stato usato, il numero di morti per malaria è crollato. Dove il DDT non è stato usato è salito alle stelle. Per esempio in Sudafrica, il paese più sviluppato del continente, l’incidenza della malaria è stata mantenuta a livelli molto bassi (meno di 10.000 casi l’anno) grazie a un uso oculato del DDT. Nel 1996 però le pressioni ambientaliste hanno convinto i direttori dei programmi a cessare l’uso del DDT, scatenando così una delle peggiori epidemie nella storia del paese, con circa 62.000 casi nel 2000”.

    Effetti tanto catastrofici di campagne apparentemente innocue, o addirittura benefiche, erano largamente prevedibili e possono ancora essere limitati per il futuro. Perché, allora, i gruppi verdi si ostinano nel perseguire politiche tanto micidiali? A spiegarne il comportamento non è solo la comprensibile inerzia di chi, dopo decenni di comizi e interventi e battaglie, fatica ad ammettere di fronte a se stesso il fallimento totale delle sue speranze. Ci sono anche motivazioni assai più prosaiche.

    Per esempio la cosiddetta “industria dell’ecologismo”: le leggi “verdi” non sono prive di effetti economici, anzi. Esse redistribuiscono ricchezza dalle imprese più efficienti (quelle cioè che vengono premiate dai consumatori sul mercato) a quelle che godono dei favori e dell’appoggio dei potenti gruppi di pressione verdi. Di fatto, grazie alla loro abilità politica e propagandistica, gli attivisti “sono esentati dalle norme sulla pubblicità menzognera, sulla trasparenza, sull’informazione finanziaria e sulla responsabilità”. In altre parole, possono giocare secondo regole molto convenienti e sono quindi in grado di sfruttare le paure che riescono a instillare nel pubblico per arricchire i loro finanziatori, sempre lieti di sdebitarsi, e acquisendo potere e prestigio.

    C’è infine un aspetto, per così dire, religioso, evidenziato nell’introduzione da Guglielmo Piombini, curatore del volume: “quando gli ambientalisti si dichiarano ‘biocentristi’ o sostenitori del ‘valore intrinseco della natura’, a prescindere dall’utilità che essa possa dare all’uomo, occorre rendersi ben conto delle sconvolgenti conseguenze di questo discorso. L’idea del valore intrinseco della natura implica necessariamente il desiderio di distruggere l’uomo e le sue opere, in quanto perturbatrici di quest’ordine”. Inoltre, “La dottrina del valore intrinseco della natura, in realtà, non è motivata dall’amore per le rocce, le piante o gli animali, ma è la razionalizzazione di un feroce odio per l’umanità: serve solo come pretesto per attaccare la dignità dell’uomo. Prova ne è che questa dottrina viene invocata solo in riferimento alle azioni compiute dall’uomo, e non per quelle prodotte da tutti gli altri organismi che fanno parte dell’eco-sistema. Ad esempio, le gazzelle si cibano di vegetazione, i leoni mangiano le gazzelle e i microbi attaccano i leoni. Perché in questi casi gli ambientalisti non denunciano la distruzione di qualcosa (piante, gazzelle o leoni) che possiede un valore intrinseco?”. Già, perché?

    (Armi Magazine, luglio 2006)

    Recensione di Anna Bono

    Ogni tanto dall’Africa arriva una buona notizia. È di questi giorni la decisione del governo del Tanzania, uno degli stati dell’Africa orientale più colpito dalla malaria, di annullare finalmente il divieto di usare il Ddt (dicloro-difenil-tricloretano), l’insetticida per anni proibito quasi in tutto il mondo, nonostante la sua straordinaria efficacia, in seguito a una delle prime campagne ambientaliste internazionali. Dopo aver contribuito ad estirpare la malaria in Europa occidentale e in Nord America e a ridurne la diffusione in altri continenti, salvando la vita a circa 50 milioni di persone, all’inizio degli Anni ’60 il Ddt era stato messo sotto accusa da alcuni ricercatori convinti che nel lungo periodo il prodotto avrebbe determinato una catastrofe ecologica senza precedenti, facendo ammalare di cancro milioni di persone e provocando l’estinzione di centinaia di specie animali. La successiva campagna ambientalista contro il Ddt, lanciata nonostante che degli studi appena realizzati avessero già dimostrato che in realtà non era cancerogeno ed era innocuo – nelle quantità necessarie a combattere gli insetti – sia per l’uomo che per gli animali, fu efficace al punto che nel 1972 l’Agenzia Americana per la Protezione dell’Ambiente lo mise al bando. Sull’esempio americano, inoltre, il Ddt fu tolto dal commercio in numerosi paesi, sostituito da altri insetticidi che tuttavia si rivelarono meno efficaci. Subito i casi di malaria in Asia e ancor più in Africa ripresero a moltiplicarsi. Oggi la malattia colpisce circa 300 milioni di persone all’anno e ne uccide due milioni. È una delle piaghe del continente africano dove, insieme all’Aids e alla tubercolosi, costituisce una delle tre cause maggiori di morte: ne sono vittime 3.000 bambini africani al giorno, uno ogni 30 secondi: è come se ogni giorno 85 scuolabus avessero un incidente senza superstiti. Sempre in Africa, la malattia ogni anno costa 12 miliardi di dollari e la perdita di 100 miliardi di dollari di Prodotto Interno Lordo.

    Quello della malaria e dei suoi costi umani colossali non è che uno degli esempi di quanto nuoccia l’ideologia ecologista , contenuta nel libro Eco-imperialismo. Potere verde morte nera del ricercatore americano Paul Driessen: una sorta di «libro nero» dell’ambientalismo appena pubblicato in Italia dalla casa editrice maceratese Liberilibri, tradotto e curato da Guglielmo Piombini che è anche autore della prefazione all’edizione italiana intitolata Quando l’ambientalismo uccide. Associato al terzomondismo, che a sua volta ha origine dalla teoria del «buon selvaggio», l’ambientalismo diventa ecoprimitivismo ed è allora – come spiega nel suo eccellente saggio introduttivo Guglielmo Piombini – che produce i danni maggiori: gli ecoprimitivisti infatti non soltanto trascurano le responsabilità delle leadership dei paesi poveri, rapaci e irresponsabili amministratori di immense ricchezze che a causa loro non diventano mai volano di sviluppo economico e sociale, ma respingono lo sviluppo stesso come un mito pericoloso, anzi come un mitema dell’idea occidentale di progresso che, secondo loro, ha corrotto gran parte dell’umanità, portando la Terra quasi al collasso per eccesso di popolazione e di consumi.

    Nella sua espressione estrema il movimento ambientalista considera l’uomo il cancro del pianeta e propaganda addirittura una cultura della morte. Presenta quindi tutte le caratteristiche per diventare un totalitarismo genocida e proprio mentre l’umanità deve già fare i conti con la cultura della morte e con il modello totalitario proposti dall’islam integralista che schernisce e sfida l’Occidente e la sua cultura della vita. È in questa prospettiva che occorre valutare la recente nomina dell’ambientalista Alfonso Pecoraro Scanio a ministro italiano dell’Ambiente e prepararsi a contrastarlo.

    (RagionPolitica)

    Recensione di Giulio Meotti

    Nell’agosto del 2002, 60 mila fra attivisti, burocrati e politici volarono con jet brucia-kerosene e sputa-gas serra a Johannesburg, per un Summit della Terra dal costo di 50 milioni di dollari. In due settimane denunciarono di tutto, dall’elettricità allo sciacquone del bagno, dai carburanti fossili alle biotecnologie e al capitalismo, fino ovviamente agli Stati Uniti. Pretendevano di rappresentare i poveri, anche se raramente avevano chiesto loro un parere. “Che quegli ambulanti avessero bisogno di vendere le loro merci per sfamare le loro famiglie non sembrava preoccupare gli organizzatori del Summit. Nel frattempo gli hotel a cinque stelle offrivano pantagrueliche quantità di caviale Beluga, ostriche allo champagne, carni di prima scelta, salmone e altre prelibatezze per saziare i gusti epicurei dei delegati”. Negli Stati Uniti lo scalpore ideologico fu enorme all’uscita del saggio di Paul Driessen Eco-imperialismo. Potere verde morte nera. Habitué della K Street di Washington, sostenitore dell’ecologia di mercato (free-market environmentalism) e consulente del Congress of Racial Equality (la più antica organizzazione americana di diritti civili), Driessen racconta trent’anni di “crimini” economici, ambientali, ideologici, umani e sociali di cui si è macchiato il movimento verde. Secondo Patrick Moore, cofondatore di Greenpeace, questo di Driessen è un libro che dovrebbero leggere tutti per capire i veri interessi del gigantesco apparato ecologista, che secondo il Capital Research Center, solo negli Stati Uniti ha entrate annuali per oltre 4 miliardi di dollari, grazie a contributi versati da fondazioni, imprese, sindacati, avvocati e agenzie governative finanziate dai contribuenti.

    Driessen non esita a usare il termine “genocidio” per l’imposizione ambientalista di una politica anti-industriale e anti-sviluppo nei paesi poveri, soprattutto in Africa: solo nel solo 2001 ci sono stati 4 milioni di morti per dissenteria e diarrea (di cui 3 milioni di bambini), 1 milione di adulti e 900 mila bambini morti per malaria, 3 milioni di morti per denutrizione, 3 milioni di morbillo, difterite e tetano, 4 milioni per polmonite e altre malattie respiratorie, 500 mila per tifo e 2 milioni per mancanza di vitamina A. A queste vittime bisogna aggiungere 500 mila bambini divenuti ciechi per carenza di vitamina A. Sul Daily Telegraph il direttore della Fondazione sudafricana per il libero mercato, Leon Louw, ha accusato le organizzazioni non governative e l’Unione europea di “insidioso eco-imperialismo”. “Questi neo-luddisti pongono i capricci elitari ecologisti e i concetti nebulosi di consumo delle risorse sopra i bisogni di miliardi di poveri del mondo. Cercano di imporre i concetti dell’ecologismo e dello sviluppo umano del primo mondo ai paesi in via di sviluppo. Non vogliono che i paesi poveri seguano lo stesso sentiero che ha reso possibile la prosperità dei propri paesi”. In Uganda le pressioni dei verdi hanno bloccato i lavori di costruzione della diga Bujagali, anche se meno di 1 milione di ugandesi ha accesso all’elettricità.

    Il mantra dello sviluppo sostenibile
    Louw parla dello “sviluppo sostenibile”, questo mantra ambientalista, come di una “scienza vudù”. “Non si chiede mai sostenibile per quanto tempo: 10, 200, 1.000 o 1 milione di anni? Per chi? Per persone progredite con tecnologie, necessità e risorse future e sconosciute? Per quanto tempo dobbiamo conservare le cosiddette risorse ‘non rinnovabili’? I nostri discendenti, seguendo la stessa logica perversa, dovrebbero fare lo stesso? Per sempre?”. Secondo Driessen gli africani non possono permettersi di perdere anche il treno della rivoluzione biotecnologica. “Ci sono 6,6 miliardi di persone sul pianeta. Con l’agricoltura biologica potremmo sfamarne solo 4 miliardi. Chi sono i 2 miliardi di volontari che si offrono di morire?”. La domanda potrebbe essere riformulata così: chi sono i 2 miliardi di persone che Greenpeace, il Wwf e compagnia offrono come “volontari” per morire? Fra i molti argomenti toccati dal libroinchiesta c’è anche la disinformazione sulle fonti alternative. L’Associazione americana per l’energia eolica sostiene che gli Stati Uniti potrebbero fornire il 20 per cento della propria elettricità destinando “meno dell’1 per cento” del loro territorio agli impianti eolici. Detta così suona attraente e fattibile, non solo per chi vede le turbine eoliche come un eccellente mezzo per sostituire il 20 per cento dell’elettricità americana prodotta dagli impianti nucleari. Ma l’1 per cento del territorio statunitense equivale a 9.200.000 ettari, cioè all’intero stato della Virginia. Gli impianti nucleari che forniscono il 20 per cento dell’elettricità americana utilizzano, tutti assieme, solo 18.250 ettari.

    Una nuova centrale a gas in California di 555 megawatt genera più elettricità ogni anno di tutte le 13 mila turbine eoliche dello stato. La centrale occupa inoltre meno di 6 ettari. Le turbine, alte 60 metri, coprono più di 40 mila ettari, spogliando chilometri e chilometri di bellissimi panorami e aree naturali, che in questi casi, ovviamente, gli Amici della Terra sono sempre pronti a sacrificare. La British Petroleum ha investito 200 milioni di dollari nell’energia solare, dichiarando che nel 2007 ne avrebbe fatto un business miliardario. Attualmente, scrive la rivista Fortune, la compagnia produce, in tutto il mondo, un totale di 77 mw tra energia eolica e solare. Ma 77 mw di energia solare ed eolica prodotti dalla compagnia bastano appena a illuminare Boise, nell’Idaho, e solo per un anno. Un capriccio costoso, che devasta il paesaggio e del tutto inutile. Dopo aver rinnovato la speranza nell’etanolo e nel diesel ecologico per disintossicare l’America dal petrolio, ieri Bush ha annunciato la sospensione delle consegne di petrolio alle riserve strategiche, per far affluire più greggio sui mercati e contribuire così ad abbassare i prezzi della benzina.

    (Il Foglio, 26 aprile 2006)

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