G.MIGLIO, A.BARBERA – FEDERALISMO E SECESSIONE. UN DIALOGO

 25,00

(Edizione rilegata-una sola copia disponibile)
Mondadori – 1997, Pagine 191

Il libertario Miglio e il socialista Barbera discutono su federalismo e secessione

 

Descrizione

Recensione di Danilo Breschi, Università di Siena

La teoria politica è chiamata a rispondere al seguente quesito: qual è il modello di federalismo che meglio si adatta alla storia politico-istituzionale e alla realtà socio-economica della penisola?

Prima di rispondere ad una simile domanda, occorrerebbe affrontarne un’altra che chiede di stabilire se il federalismo sia davvero la soluzione per la crisi politica che stiamo attraversando. È proprio per tentare di dare una prima, parziale risposta che presentiamo le tesi di due illustri studiosi, Gianfranco Miglio ed Augusto Barbera, esposte nel volume Federalismo e secessione [4] .

Visto il contenuto del libro, la data di pubblicazione (1997) non deve preoccupare circa l’attualità di quanto viene fuori dal dialogo, vivace e fecondo, che si sviluppa tra i due. Inoltre, la loro esperienza politica e partitica (Miglio nella Lega, Barbera nel PCI e poi nel PDS) è garanzia di “realismo” nelle analisi svolte e nelle proposte avanzate. Analisi e proposte che si dividono tra neo-federalismo e neo-regionalismo.

È probabile che il federalismo in Italia risentirà, e non poco, della svolta istituzionale rappresentata dalla legge costituzionale che ha introdotto l’elezione diretta dei presidenti delle Regioni, conferendo ai Consigli regionali alcune prerogative di rilievo, tra cui la possibilità di approvare nuovi Statuti. Insomma, esiste ormai la possibilità concreta di dare solida forma istituzionale all’autonomia locale.

A tal proposito Miglio si è di recente mostrato privo di dubbi: “la riforma che ha portato all’elezione diretta dei “governatori” nelle diverse regioni italiane ha una carica rivoluzionaria molto maggiore di quanto si immagini”. Una carica rivoluzionaria che esploderà proprio “dalla redazione e dalla successiva applicazione degli Statuti regionali (che non potranno essere omogenei)”. Da qui “contrasti crescenti con l’amministrazione centrale dello stato”, cosicché “nella nuova legislatura le Regioni saranno il vero motore del cambiamento istituzionale” [5] . Così Miglio.

Aspettando di vedere fin dove si spingeranno i “governatori” regionali e di verificare cosa può significare il ritorno di Bossi e della Lega al governo, la lettura di Federalismo e secessione offre ampia materia di riflessione e strumenti per capire qualcosa in più su un tema di cui troppo si blatera, di cui poco si sa e di cui tanto, invece, dovremo sempre più sapere.

Perciò, senza alcuna presunzione di originalità, proviamo piuttosto a fare un po’ di chiarezza, anzitutto terminologica. In questo siamo confortati da Barbera, il quale ritiene necessario che, prima di tutto, ci si intenda bene sul significato del termine “federalismo”, “così abusato da rischiare di consumarsi politicamente prima di qualunque riforma costituzionale” [6] .

Al che Miglio aggiunge, sfoderando tutto il suo realismo intriso di umori apocalittici: “Il fatto che esista una Babele di linguaggi intorno ai concetti fondamentali nel vocabolario politico moderno, è probabilmente indice che tutta questa modernità è in grande crisi. Quando il linguaggio, che è il nostro maggiore tiranno politico, diventa confuso è segno che la realtà che era solito descrivere è in crisi” [7] . Basti pensare che sono state individuate quasi 500 definizioni per classificare i diversi federalismi in circolazione!

Se ci avventurassimo nella dottrina costituzionalistica con il buon proposito di far chiarezza, finiremmo in una giungla da cui non usciremmo vivi. C’è infatti chi non ritiene valida, sotto il profilo qualitativo, la distinzione, di cui si sente molto parlare, fra Stato federale e Stato regionale. La diversità sarebbe solo di tipo quantitativo, relativa al volume di funzioni e di ambiti di competenza riservati agli enti territoriali [8] .

C’è chi ritiene invece che federalismo voglia dire dividersi per poi, eventualmente, riunirsi in modi diversi, e chi ritiene che federarsi voglia dire unirsi meglio, con maggiore rispetto delle autonomie degli ordinamenti territoriali minori. C’è poi chi distingue tra federazione e confederazione, e chi no [9] . Limitiamoci, pertanto, a capire quale sia l’idea di “federalismo” che anima i due interlocutori. Una sorta di perlustrazione aerea della giungla.

Il federalismo libertario e liberista di Miglio

Miglio coltiva invece un’idea alternativa di “federalismo”. Non solo alternativa a quella di Barbera, come era facile intuire, ma anche alla maggior parte delle teorie federaliste correnti. Queste infatti condividono, sia pure in misura diversa, l’idea che, specie per l’Italia, federalizzare significhi articolare la sovranità a vari livelli politico-amministrativi, mantenendo ferma la struttura unitaria dello Stato nazionale. Con un processo che dall’alto e dal centro proceda verso il basso e la periferia. Insomma, dietro le formule nuove si nasconderebbe una mera logica di decentramento o di una ancor più blanda “deconcentrazione” di funzioni e competenze.

Limitarsi ad un’operazione del genere vuol dire truccare le carte. Nella migliore delle ipotesi, significa assecondare un processo già in atto da tempo e che vede lo Stato nazionale, centralista e monolitico, deperire lentamente a causa dei fenomeni ben noti e già menzionati della globalizzazione delle comunicazioni e della finanziarizzazione dell’economia. Insomma, molti dei novizi del federalismo nostrano non fanno altro che sostenere un “federalismo per abbandono”. Si tratta cioè, come scrive Franco Pizzetti, di “un sempre più accentuato trasferimento di funzioni e compiti alle regioni e al sistema delle autonomie locali come modo per ridurre la spesa pubblica statale e per spostare dal centro alle periferie la responsabilità della risposta a domande sociali che, in periodo di difficoltà per la spesa pubblica, richiedono sempre più la capacità di garantire efficienza ed equità nella ridefinizione delle prestazioni” [13] .

Dal canto suo, Miglio ritiene che lo Stato moderno, fondato sui tre pilastri del territorio, del popolo e del potere, è oramai come una casa senza fondamenta. Non può che venir giù, a meno che non lo si ricostruisca praticamente ab imis, da capo a piedi. O meglio: dai piedi, che sono costituiti da quelle comunità intermedie tra cittadino e Stato e che egli ama chiamare Cantoni, ispirandosi all’esperienza costituzionale svizzera.

Proposte per l’Italia: una o trina?

Il punto di divergenza fra i due interlocutori è massimo quando si tratta di applicare la propria idea di federalismo all’Italia. Barbera si dice favorevole a forme di consorzio tra regioni, che possono pure essere chiamate Cantoni, a patto che non vengano investite di sovranità originaria. Per questo motivo non si può parlare di “Stato federale” in senso proprio, quanto di una forte articolazione regionale delle strutture politico-amministrative. Si dice pure d’accordo con Miglio nel sopprimere le Province, enti inutili e costosi da trasformare in Federazioni di Comuni, come previsto dallo Statuto siciliano e mai attuato. Resta fermo il fatto che i soggetti della Federazione devono restare le comunità regionali, entità chiaramente individuate da una storia e tradizioni culturali condivise.

Miglio invece ritiene che le entità territoriali di base del nuovo assetto federale italiano vadano individuate sulla base degli interessi. Chi condivide interessi socio-economici comuni ha il diritto di unirsi, rispettando tanto la volontà soggettiva dei cittadini quanto l’oggettiva omogeneità del territorio sotto il profilo delle risorse e delle “vocazioni” economico-produttive. Così, a suo avviso, si deve constatare che l’Italia non è una nazione, essendo “formata da un’accozzaglia di popolazioni che non hanno nulla in comune, neanche la lingua effettivamente parlata” [14] .

Ecco così la ricetta del politologo lombardo: tre grandi Cantoni tali da delimitare gruppi di interessi chiari e distinti, corrispondenti al Nord, al Centro e al Sud della penisola italiana. A chi obiettasse che la Padania non esiste, come fa Barbera, Miglio risponde che, in fondo in fondo, le “nazioni” non esistono in natura, ciò che conta sono gli interessi, quelli oggettivi e ancor più quelli soggettivi. Una volontà politica, organizzata e fondata sul consenso dei cittadini direttamente interessati, può creare una “nazione” di nuovo conio. In tal senso, la Padania trova una propria realtà, una propria sostanza, in due percezioni diffuse tra la popolazione dell’Italia settentrionale, e che Miglio descrive nei termini seguenti: “la prima è quella di far parte della terra più ricca e laboriosa d’Europa e la seconda è quella di essere gli “schiavi fiscali” di altre popolazioni” [15] .

Che tali percezioni siano corrette o meno conta poco, l’importante è l’azione mobilitante che esercitano su soggetti individuali e collettivi, la capacità di “far crescere un senso di appartenenza di tipo identitario” [16] . Questo perché l’identità “non è solo etno-linguistica, ma è fatta anche di stili di vita, condizioni socio-economiche, percezioni politiche” [17] .

A questa acuta osservazione di Miglio, si può rispondere che ogni identità necessita di un lungo tempo di maturazione, che segue un altrettanto lunga fase di gestazione. L’impressione è che la Padania non abbia ancora concluso questa fase preliminare. Come ricorda anche Barbera, l’identità “deve sedimentarsi nella storia, ha bisogno di memorie collettive, di ricordi e esperienze comuni” [18] . Comunque la si veda, possiamo dire che i centocinquant’anni di unità nazionale sono un bagaglio non facile da scaricare anche per il più acceso anti-italiano.

A ciò bisogna aggiungere che il rapporto tra Stato e nazione è di influenza reciproca. Non è un caso che si parli di “Stato nazionale moderno”. Nell’aggettivo “moderno” è senz’altro contenuta tutta la carica ideologica che ha sostenuto in Europa il processo di unificazione di popolazioni non sempre omogenee e concordi. Però, quel surplus di ideologia e mitografia di cui la politica (lo Stato) si è avvalso ha retto nel tempo solo là dove vi erano tradizioni e costumi comuni (la nazione). Si dirà che anche le tradizioni si possono “inventare” e che di fatto sono state inventate, ma sono le guerre che, nel bene e nel male, forgiano le identità dei popoli, assai più delle idee. Il suggestivo film Braveheart, rievocando un passato remotissimo, non potrà fare per la coscienza nazionale della Scozia quello che l'”Insurrezione di Pasqua” del 1916 o la “Domenica di sangue” del 1972 hanno fatto per l’autoidentificazione nazionale dell’Irlanda.

Un caso a sé: ancora su Miglio

La teoria migliana del federalismo merita qualche riflessione in più, se è vero quel che dice Barbera al vecchio politologo: “Il tuo modello non ha precedenti in altri Stati federali” [19] . Miglio dichiara che il suo federalismo non nasce da un’opzione ideologica, da una sorta di partito preso. Vuole essere piuttosto la risposta “tecnica” alla “semplice constatazione che il centralismo, in Italia, ha giocato tutte le proprie carte e ha perso la partita”. Nient’altro che la risposta politico-istituzionale più adatta alle “necessità “governamentali” dei nostri tempi” [20] .

Dalle proposte viene fuori il pensiero politico di Miglio che, come osserva Barbera, è una suggestiva miscela di cultura cattolica (il recupero del ruolo delle società intermedie) e di liberalismo della “scuola austriaca” (Mises e Hayek, per intenderci); miscela che condivide pure qualcosa con l’anarchismo, vale a dire l’insofferenza verso ogni forma di autorità statuale. Quel tipo di cultura liberale, scrive ancora Barbera, “che reputa lo Stato un tiranno di cui meno c’è, meglio è” [21] . Diremo di più: a Miglio non mancano motivi per schierarsi sul fronte, sia pure composito, degli anarco-capitalisti [22] .

A suo avviso, infatti, l’evoluzione dell’economia industriale degli ultimi decenni conferma che solo l’individuo lasciato libero di operare su un mercato altrettanto libero può trovare soddisfacimento pieno ai propri bisogni. Lo Stato è, quasi sempre, un intralcio. La stessa ragion d’essere del moderno Stato-nazione, che Max Weber codificava nella formula del “monopolio della forza fisica legittima” [23] , è venuta meno da quando l’extrema ratio bellica, l’impiego dell’arma di ultima istanza che solo uno Stato può possedere, coincide con la probabile distruzione di entrambi i contendenti.

Ammesso e non concesso che la bomba atomica sia davvero neutralizzata e fuori dall’orizzonte dell’uomo del XXI secolo (Pakistan, India e organizzazioni criminali internazionali non lasciano tranquilli al riguardo), è certo che globalizzazione finanziaria e tecnologia informatica e satellitare scavalcano ormai da tempo i confini dei vecchi Stati e ne sorvolano governi lenti e macchinosi.

Ma, al di là del realismo conclamato, c’è in Miglio una precisa ideologia. Si tratta, per certi versi, di un radicale individualismo libertario, sofferente anche della semplice presenza di uno Stato ridotto ai minimi termini. Lo “Stato sociale” è spesso sorto per volontà dei parassiti, ceti che non hanno contribuito a creare la ricchezza della comunità di appartenenza e che cercano di “vivere alle spalle degli altri”, mediante “giustificazioni ex post di tipo ideologico e religioso” [24] . L’idea di “società giusta”, che tende ad eguagliare i redditi di chi produce quantità diverse, è una di queste giustificazioni strumentali e funzionali ai parassiti e ai furbi. Questi ultimi non sono altro che i governanti, i quali sulle politiche di redistribuzione hanno costruito lunghe permanenze sugli scranni del potere nazionale.

Un conto sono la filantropia e la carità cristiana, un conto la “carità coatta” che si realizza con la tassazione [25] . Le prime sono forme di generosità che nascono dalla libera volontà dei singoli, la seconda è, né più né meno, una forma di “espropriazione proletaria” [26] . Il centralismo statale e nazionale è, infine, il presupposto ideologico ed istituzionale della politica che oggi viene praticata e imposta tanto da Roma quanto da Bruxelles. Questo sostiene, per convinzione come per amor di provocazione, Gianfranco Miglio.
L’aspetto libertarian non esaurisce però l’ideologia del politologo lombardo, il quale si mostra pure sensibile al problema della carità verso i più deboli. Caritas è termine gradito a Miglio, in quanto “vuol dire andare a cercare chi ha bisogno di essere aiutato” [27] . L’importante è scovare i veri bisognosi, che sono sempre singoli soggetti e mai categorie. Questo è, perciò, il vantaggio offerto dalle unità territoriali più piccole, quelle comunità intermedie, omogenee sotto il profilo economico e culturale, il cui ruolo il principio di sussidiarietà intende valorizzare.

Miglio crede che uno Stato possa continuare ad essere “sociale”, veramente “sociale”, solo nella misura in cui, diventando federale, assume dimensioni ridotte e un’amministrazione a diretto contatto con i cittadini. Barbera, invece, pensa che ogni Stato davvero “sociale” non possa che aumentare i poteri centrali del governo federale, così che il federalismo si attenua, pur non scomparendo. Gli Usa degli anni Trenta e la Germania degli anni più recenti stanno lì a dimostrarlo.

Federalismo e Stato sociale

Veniamo così ad un punto assai delicato del dibattito sul federalismo. In Italia come altrove, e forse più che altrove, il riassetto politico e territoriale delle strutture statuali deve tener presente quanto di Welfare State c’è in queste strutture. Lo Stato sociale vive una crisi ben nota. È un istituto non più in grado di assolvere in modo soddisfacente i compiti per i quali era stato creato. Secondo Barbera, ciò è dovuto soprattutto al recente mutamento subìto dai quattro presupposti sui quali si reggeva: “le aspettative di uno sviluppo illimitato; il modello di produzione “fordista” […]; la incisiva presenza di partiti dei lavoratori e dei movimenti cattolici; la cornice offerta dallo Stato nazionale” [28] .

Al mutare di questi presupposti si aggiunge la “crisi fiscale”, che ha ulteriormente sovraccaricato i governi di domande sociali e di proteste a cui è sempre più difficile rispondere tempestivamente e adeguatamente. Soprattutto l’unicità e l’universalità di un intervento risanatore o riformatore dall’alto non sa cogliere la frammentazione e la particolarità dei mille interessi corporativi di una società “post-industriale”. Barbera ritiene che si possa e si debba salvare la logica solidaristica alla base delle politiche di Welfare, e ci sono tre diritti sociali, a suo avviso fondamentali, che “devono essere garantiti dallo Stato centrale: il diritto alla salute, il diritto all’istruzione, il diritto alla previdenza” [29] . Proprio in questa forma di tutela, ad un tempo giuridica ed economica, trova ancora significato la persistenza di una struttura statuale unitaria e centrale, anche se non centralizzatrice..

Niente di più irritante per le orecchie di Miglio, il quale ritiene che il lessico di Barbera, come di ogni altro fautore pur critico dello Stato sociale, sia infarcito di concetti “un po’ fumosi” [30] : coesione sociale, bene comune, unità nazionale. Il punto di partenza deve essere sempre l’individuo nella propria comunità di appartenenza, quella comunità di cui l’individuo si sente veramente parte nella misura in cui ne condivide interessi e fini. Tanto più piccola è la comunità tanto più è probabile che si sviluppi tra i suoi membri uno spirito di “milizia”, cioè la disponibilità a “prestazioni che si fanno senza guadagnare un soldo” [31] .

Così il politologo che bolla come teoria organicistica anche il neo-riformismo socialdemocratico di Barbera pare fautore di una forma di “libertarismo civico”, con qualche timida inclinazione comunitarista. Come lui stesso ammette, è un anarchico ancor troppo autoritario: “Mi iscrivo senz’altro alla corrente degli anarco-autoritaristi” [32] . Il realismo migliano non sta solo nell’approccio allo studio delle cose, ma nella convinzione che il giusto risieda nell’ascolto di ciò che proviene dalle “viscere” del cittadino, oltreché dal suo “cuore”. Bisogna rispettare le diversità, di diritto e di fatto, che da questo ascolto emergono.
Le differenze sono pure quelle tra produttori e consumatori di tasse, differenze occultate dall’ombra livellatrice dello Stato sociale. Una Costituzione federale trova in questo rispetto delle differenze la propria ragion d’essere, e perché essa abbia pieno successo è pure necessario che l’intera società sappia “sviluppare una vera vocazione per la concorrenza: dalla competitività fra Municipi e Cantoni, tra di loro e rispettivamente fra questi organi e gli altri della Federazione” [33] .

ltima conseguenza di questo ragionamento è che il federalismo più genuino è quello che si fonda su una economia di libero mercato, e che “non tollera nessuna forma di pianificazione sociale o economica” [34] .

Ecco che la matrice libertarian (liberista e anarco-individualista) del federalismo di Miglio si dispiega in tutta la sua schiettezza e radicalità. Una schiettezza e una radicalità che pongono interrogativi a chi maneggia con troppa disinvoltura i concetti di pluralismo e di differenzialismo in un contesto di società fortemente laicizzate e rese disincantate da mentalità di tipo utilitaristico. Miglio può essere tacciato di estremismo, ma può pure essere giudicato coerente e aderente ai dettati di un pensiero che pone al primo posto libertà individuale e proprietà privata. E di questo gli va dato atto. Anche perché è il contrattualismo, cui Miglio si richiama in modo così rigoroso da risultare rigido, che meglio di altre teorie e pratiche politiche sa coniugare libertà e socialità.

Se la cultura dominante è all’insegna del particulare, forse ha ragione Miglio: il vero autentico slancio solidaristico, se non addirittura lo spirito comunitario, lo si troverà e fonderà solo e soltanto partendo dal singolo, dalle sue viscere e dal suo cuore. Un’alternativa c’è: contrapporre una cultura ispirata a valori diversi, all’insegna del civismo. L’interrogativo, però, resta e ci si chiede se non siamo vittime di un utopismo antropologico. Miglio e la tradizione del realismo beffardi ci sfidano.
Tornando al libro, un’ultima, curiosa osservazione. In conclusione di questo dialogo il curatore (anonimo) del libro chiede ai due interlocutori “quante possibilità abbia la prossima Commissione bicamerale di riformare questa Costituzione”. Siamo all’inizio del 1997 e Miglio risponde secco: “Quasi nessuna”; Barbera, invece: “Il viottolo è stretto, ma non si può fallire per la terza volta in dieci anni” [35] . La storia, che è poi il passato appena alle nostre spalle, conferma che in Italia ha gioco più facile il pessimismo della ragione che non l’ottimismo della volontà.
NOTE

[1] Angelo M. Petroni, Le ragioni di una scelta, in “Ideazione”, n. 3, maggio-giugno 2001, pp. 80-81.
[2] Alessandro Vitale, Il futuro è a Oriente, in “Ideazione”, n. 2, marzo-aprile 2001, p. 123.
[3] Ibidem.
[4] Gianfranco Miglio, Augusto Barbera, Federalismo e secessione. Un dialogo, Milano, Mondadori, 1997.
[5] Gianfranco Miglio, Oltre lo Stato-nazione: l’Europa delle città, in “Ideazione”, n. 2, marzo-aprile 2001, p. 103.
[6] G. Miglio, A. Barbera, Federalismo e secessione, cit., p. 16.
[7] Ivi, p. 27.
[8] Vedi Giuseppe de Vergottini, “Federazione”, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, vol. IV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1994, pp. 52-53.
[9] Vedi Lucio Levi, “Federalismo”, in Enciclopedia delle scienze sociali, cit., pp. 32-43.
[10] G. Miglio, A. Barbera, op. cit., p. 92.
[11] Ivi, p. 151.
[12] Ibidem.
[13] Franco Pizzetti, Brevi spunti di riflessione sull’esperienza di un trentennio di regionalismo, in AA. VV., Regionalismo, Federalismo, Welfare State, a cura di Antonio Ferrara e Vincenzo Visco Comandini, Milano, Giuffrè, 1997, p. 260.
[14] G. Miglio, A. Barbera, op. cit., p. 168.
[15] Ivi, p. 167.
[16] Ivi, pp. 167-168.
[17] Ivi, p. 168.
[18] Ivi, p. 170.
[19] Ivi, p. 96.
[20] Ivi, p. 147.
[21] Ivi, p. 26.
[22] Sulla distinzione tra i “sostenitori dello Stato minimo” e i più radicali “anarco-capitalisti” all’interno della corrente libertarian del liberalismo statunitense, vedi Alain de Benoist, I comunitaristi americani, in “Trasgressioni”, n. 19, maggio-dicembre 1994, pp. 3-29 (in part., p. 26, nota 21). Per una diversa valutazione del libertarianism, cfr. Raimondo Cubeddu, Atlante del liberalismo, Roma, Ideazione, 1997 (in part., cap. III). Nel panorama editoriale italiano esiste pure una “rivista libertaria”, che risente molto delle suggestioni d’oltreoceano: il trimestrale “Enclave” edito da Leonardo Facco.
[23] M. Weber, La politica come professione, in Id., Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi, 1948, p. 48. Il corsivo è nel testo.
[24] G. Miglio, A. Barbera, op. cit., p. 34.
[25] Ivi, p. 35.
[26] Ibidem.
[27] Ivi, p. 43.
[28] Ivi, p. 39.
[29] Ivi, p. 48.
[30] Ivi, p. 73.
[31] Ivi, p. 75.
[32] Ivi, p. 184.
[33] Ivi, p. 135.
[34] Ibidem.
[35] Ivi, p. 191

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