LORENZO INFANTINO – Ignoranza e libertà

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La libertà  si afferma solo dove gli uomini riconoscono la propria ignoranza e fallibilità.

Edizioni: Rubbettino   Anno: 1999   pag. 265

COD: 018-156 Categoria:

Descrizione

Intervista all’autore di Carlo Stagnaro

Gli studiosi italiani che riescono a “bucare” il mercato straniero sono davvero pochi. E’ dunque di particolare rilievo la recente pubblicazione, per la prestigiosa casa editrice Routledge di Londra, del libro di Lorenzo Infantino, Ignorance and Liberty (pp.224, $90,00), traduzione dell’omonimo saggio Ignoranza e libertà (Rubbettino). L’autore, professore di Metodologia delle scienze sociali presso la Luiss – Guido Carli di Roma, è uno dei (pochi) discepoli che Friedrich von Hayek e gli altri esponenti della scuola austriaca dell’economia contano nel nostro paese. Un liberale col pedigree, dunque: conscio della fallibilità dell’uomo, e quindi strenuo sostenitore della necessità d’un sistema politico libero che permetta e, anzi, incentivi la cooperazione sociale. Da qui anche l’appassionata difesa della proprietà privata dei mezzi di produzione. E’ a partire da questo dato antropologico ch’egli imbastisce la propria critica dell’interventismo statale, di tutte le utopistiche “terze vie”, della presunzione fatale dei socialisti. Nessuno è perfetto, e meno di tutti lo sono coloro che hanno la pretesa d’indirizzare, con gli strumenti del potere statale, la vita degli altri. Il Tempo ha approfondito questi temi con Infantino stesso.

Professor Infantino, il senso profondo del suo libro è che la libertà ci viene imposta dalla fallibilità umana. Perché?

L’intera tradizione liberale, fin dai suoi prodromi ateniesi, pone instancabilmente in evidenza la condizione di ignoranza e di fallibilità dell’essere umano. Dal che discende la necessità di limitare il potere, perché nessuno può essere considerato onnisciente, e di affidarsi alla cooperazione sociale per la soluzione dei nostri problemi. Di qui deriva anche l’uguaglianza dinanzi alla legge, che è un mezzo attraverso cui uomini che si riconoscono ignoranti e fallibili alimentano un processo finalizzato alla scoperta del nuovo e all’individuazione degli errori.

Spesso il liberalismo viene associato all’individualismo. Individualismo e cooperazione possono andare di pari passo, lungo la stessa strada?

È una domanda molto pertinente. Friedrich von Hayek ci ha magistralmente raccomandato di distinguere fra l’individualismo “vero” e l’individualismo “falso”. Il vero individualista è colui che, consapevole dei propri limiti, ritiene che le soluzioni possano essere trovate solo tramite il coinvolgimento di ciascuno in un grandissimo processo di cooperazione. Ed è questo l’individualismo che sta alla base del liberalismo e di cui non possiamo fare a meno. C’è poi un falso individualismo, che è quello che si trova all’interno di certo utilitarismo e che serve da luogo comune a tutti gli oppositori della società liberale. L’individualismo viene in questo caso fatto coincidere con l’egoismo. Ma l’egoismo è un tratto umano che può colpire tutti, in misura non inferiore anche i collettivisti. Quel che bisogna comprendere è che la libera cooperazione sociale, basata sull’uguaglianza dinanzi alla legge, è un sistema che tende a limitare l’egoismo di ciascuno.

Perché ritiene che il socialismo – cioè il tentativo di accentrare i mezzi di produzione nelle mani del ceto politico (e burocratico) – non possa funzionare? In altri termini: condivide o no la tesi di quanti sostengono che il comunismo sia fallito a causa del tradimento degli ideali di Marx e Lenin?

Comincio dalla seconda parte della domanda. Non c’è stato alcun tradimento degli ideali di Marx e Lenin. Essi intendevano abbattere la società libera. E si sono comportati coerentemente. Altra cosa sono le promesse che essi hanno formulato. Ma gli strumenti – la soppressione della proprietà privata, del mercato e delle istituzioni connesse – non sono irrilevanti rispetto ai fini. Non ci può essere – vengo così alla prima parte della domanda – libertà politica ove non ci sia libertà economica. È a quest’ultima che dobbiamo la possibilità di procacciarci i mezzi per tutte le nostre finalità. Quando il mezzo è il monopolio degli apparati burocratico-coercitivi dello Stato, nessuno può disporre delle risorse necessarie al raggiungimento di fini individualmente decisi.

Dopo il crollo del muro di Berlino, sembra essersi imposta nel dibattito politico la ricerca di una “terza via” tra economia di mercato e socialismo. Può esistere una siffatta “terza via”?

La ricerca della “terza via” non è qualcosa di nuovo. È una tentazione ritornante. Già Francesco Ferrara parlava di «germanesimo economico», volendosi riferire a quella ottocentesca cultura tedesca che, pur senza puntare alla pianificazione centralizzata, riteneva necessario intervenire politicamente sul mercato attraverso un vasto sistema di interferenze. È da quella cultura che è nato il nazismo. Occorre perciò essere molto cauti. E non bisogna illudersi di potersi sottrarre al processo di globalizzazione. Se vogliamo stare dentro quel processo, e trarre i vantaggi che ne conseguono, è indispensabile dare più spazio al mercato e meno agli interventi autoritativi di quei soggetti che Weber ha icasticamente chiamato «mestieranti della politica».

Lei rifiuta perciò il “primato” della politica?

Il “primato” della politica si può realizzare in diversi gradi: dal totalitarismo allo Stato burocratico-assistenziale. Esso nasce sempre dall’idea che ci debba essere un “apparato” a cui delegare la soluzione dei nostri problemi. Quel che dobbiamo comprendere è che tale idea è sempre funzionale all’allargamento della sfera di intervento della politica nella nostra vita. Ed è disfunzionale allo sviluppo della nostra libertà e del nostro benessere.

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