Descrizione
La biografia di Rigoberta Menchù, premio Nobel per la pace, che ha venduto milioni di copie, è – secondo l’autore di questo volume – un distillato di menzogne. Ciononostante, ancora oggi, la Menchù è presentata come fosse una Madonna ed è anche candidata alle prossime elezioni presidenziali del Guatemala. Il Comitato per il Nobel si è rifiutato di prestare attenzione alle accuse di falso mosse nei confronti del suo libro, e quindi del suo attore protagonista, cui il premio era stato clamorosamente assegnato nel 1992. L’incredibile motivazione è stata: “La verità non importa, ciò che conta è la causa per cui ci si batte”. Quale credibilità possono avere, allora, certe organizzazioni? Questo libro, primo in Italia, svela tutto quello che si nasconde dietro l’ascesa di un personaggio tanto caro alla sinistra “radical chic” mondiale, un’icona vivente paragonabile a una sorta di “Che Guevara” al femminile.
Libreria del Ponte –
Recensione di Guglielmo Piombini
Dopo il crollo del comunismo la sinistra occidentale è riuscita a conservare la propria egemonia culturale riconvertendosi dal marxismo al multiculturalismo. La sinistra multiculturalista non concentra più le sue critiche sulle strutture economiche della società capitalistica, come prescriveva il marxismo classico. Quasi nessuno oggi ha più il coraggio di chiedere l’abolizione della proprietà privata o la collettivizzazione dei mezzi di produzione. L’attacco prende invece di mira invece le “sovrastrutture” culturali della società, secondo la lezione di Antonio Gramsci e della Scuola di Francoforte.
Dietro una facciata relativista, il multiculturalismo combatte tutto ciò che appartiene al passato storico dell’Europa. Quest’odio profondo per il nostro retaggio religioso e culturale, motivato da un intenso sentimento di rivalsa, si manifesta con l’esaltazione acritica di tutte le culture estranee all’Occidente, comprese le più aberranti, e con il desiderio frenetico di ripopolare il vecchio continente con immigrati extraeuropei anche apertamente ostili.
Questa premessa serve a spiegare il senso di una delle operazioni propagandistiche più riuscite alla sinistra internazionale negli ultimi decenni: la creazione del mito di Rigoberta Menchú, l’indigena guatemalteca di etnia maya vincitrice nel 1992, a soli trentatre anni, del premio Nobel per la Pace. La fama della Menchú si deve al libro di memorie scritto nel 1983 dall’antropologa Elisabeth Burgos Debray, l’ex moglie del famoso rivoluzionario francese Régis Debray, la quale nel 1982 trascorse otto giorni nel suo appartamento parigino sollecitando e registrando il lungo racconto di Rigoberta (l’edizione italiana, pubblicata dalla casa editrice Giunti di Firenze con il titolo Mi chiamo Rigoberta Menchú, è del 1987).
Il successo nelle librerie, nelle scuole e nelle università fu immediato, e fece della Menchú il simbolo degli indigeni dell’emisfero occidentale depredati e oppressi dai conquistatori europei. Come povera donna indios, la Menchú era un’icona perfetta del multiculturalismo perché riassumeva in sé tutte le caratteristiche più apprezzate dalle ideologie alla moda tra gli intellettuali progressisti.
Verso la metà degli anni Novanta cominciarono però a sorgere i primi dubbi sulla veridicità del suo racconto, anche perché sembrava strano che una contadina illetterata dell’America Centrale usasse con tanta disinvoltura il tipico frasario marxista dei radical-chic occidentali. L’antropologo americano David Stoll fece delle accurate verifiche sul campo e nel 1999 pubblicò i risultati delle sue ricerche, che smascheravano cumuli di menzogne presenti nella testimonianza della Menchú.
L’editore e giornalista libertario Leonardo Facco, esperto del mondo latinoamericano, ripercorre i retroscena di questo clamoroso inganno in un libro agile ed efficace appena pubblicato dall’editore Rubbettino di Soveria Mannelli: Si chiama Rigoberta Menchú. Un controverso premio Nobel (78 pp., € 10,00). La famiglia della Menchú, ricorda Facco, non era affatto povera, perché suo padre possedeva quasi tremila ettari di terra coltivabile; le dispute per questo terreno non nascevano dai tentativi di esproprio da parte dei ricchi proprietari terrieri discendenti dei conquistadores, ma da squallide beghe famigliari; suo padre non venne bruciato vivo dai militari all’interno dell’ambasciata di Spagna, ma rimase vittima di un incendio causato dalle bottiglie molotov dei dimostranti; anche le uccisioni della madre, di tre fratelli e del nipotino compiute dalla polizia sono un’invenzione; la Menchú sostiene di essere rimasta analfabeta fino all’età adulta, ma risulta che abbia frequentato per otto mesi all’anno un ottimo collegio religioso privato; questo fatto rendeva impossibile la sua partecipazione alle attività politiche e insurrezionali descritte nel libro.
Non c’è da meravigliarsi che in Guatemala la Menchú non sia mai stata popolare come all’estero. I suoi concittadini sanno benissimo che le storie che racconta al pubblico occidentale sono piene di falsità e di esagerazioni. Alle recenti elezioni presidenziali, che si sono svolte il 9 Settembre 2007, la “portavoce del popolo oppresso” ha rimediato infatti un misero 3,05 % dei voti, nel silenzio imbarazzato degli organi d’informazione che hanno cercato di dare il minor risalto possibile alla notizia.
La Menchú si difende dalle denunce di frode accusando David Stoll di “razzismo”, rispondendo elusivamente a tutte le obiezioni specifiche, e contestando la trascrizione di Elisabeth Burgos, con la quale è in lite per i diritti d’autore del libro. Gli intellettuali di sinistra continuano ad esaltarla perché “qualche inesattezza nel racconto non inficia la bontà della sua causa”, e il comitato per il Nobel si è rifiutato di ritirarle il premio. Come scrive Romano Bracalini nella prefazione del libro di Leonardo Facco, la menzogna è sempre stata un portato della dottrina totalitaria ed il comunismo ne ha fatta un’arte insuperata. Rigoberta Menchú viene dalla medesima scuola d’impostura.
(Il Domenicale, 20 ottobre 2007)
Vedi anche la presentazione di Facco su YouTube