LORD HARRIS J.HATTON – La Libertà in fumo

 10,00

Prefazione di Alberto Mingardi
Leonardo Facco Editore – 2003, Pagine 112

Quando il proibizionismo nuoce gravemente alla salute

 

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Descrizione

Prefazione

 di Alberto Mingardi

“Il fumo uccide”. “Il fumo nuoce gravemente alla salute”. “Fumare fa male alla pelle”. Gli ammonimenti melodrammatici e lugubri (scritti in perfetto stile d’annuncio funerario), che oggi tappezzano il 30% della superficie di un pacchetto di sigarette, sono una testimonianza a tono con la teoria e la prassi del “salutismo”, vestito ideologico che non può mancare nel guardaroba di ogni governo.

Già, “il fumo fa male”: il fumatore lo sa, ne è convinto, se l’è sentito ripetere da ogni pulpito. E non può nemmeno portare questo suo cilicio di vizioso senza che gli sfuggano di mano le ultime briciole di dignità. Che ci stiamo apparecchiando il funerale, il Ministero della Salute esige ci sia ricordato ad ogni “bionda” che accendiamo, col gesto naturale di estrarla dal pacchetto.

E’ una maledizione, un’ossessione. Che abbraccia grossomodo ogni anfratto della vita umana. In Italia, un certo ministro, che di cognome fa rima con un’ espressione arabo-sicula usata di norma per comunicare stupore, s’è messo in mente di razionare le porzioni, di contingentare piatti di pasta e di riso, di arruolare i cuochi dei ristoranti in un esercito specialissimo, la cui missione è tenerci a dieta e, perché no?, farci osservare la regolamentare ora di esercizio fisico al giorno. “I camerieri non sono responsabili dell’obesità dei loro clienti”, si diceva. Ora, almeno, si spera di farne gli eroi della nostra ritrovata magrezza.

La forma fisica ha preso il posto delle grandi narrazioni. Lo Stato del benessere è anche Stato del benessere fisico, e dichiara guerra ai chili di troppo e agli inestetismi con la stessa acribia che ha riservato alla ricchezza, alla proprietà, alle assai inestetiche diseguaglianze sociali.

S’è persa la ragione. Tutto parte, è vero, da un fatto: esistono stili di vita più o meno buoni, e scrivo “buoni” apposta, per evitare ambiguità di sorta. Non ci vuole un genio (né, viceversa, il ministro Sirchia) per capire che scandire lo scivolar via dei minuti a colpi di sigaretta e accendino, o fare di uno spuntino pomeridiano un banchetto di nozze, non aiuta a “star bene”. Ma “star bene” (le virgolette sono d’obbligo) non è detto sia l’obiettivo di tutti, né è detto sia la più nobile delle aspirazioni che ci è posta davanti.

Preferire un uovo oggi a un’ipotetica gallina domani non è un crimine. E’ una scelta. E si può, legittimamente, scegliere l’uovo, il bicchierino di grappa, la barretta di cioccolato, la pipata in compagnia, insomma qualsiasi cosa ci spenga una manciata di neuroni, ci faccia diventare i polmoni color seppia, sbaragli i passanti della cintura, nella convinzione che il gioco valga la candela. Mi esprimo un po’ per frasi fatte, solfeggiando proverbi, proprio per significare che non bisogna andare troppo lontano. Non serve un “pensiero politico”, né una “etica pubblica”, né tantomeno una visione del mondo coerente e sintetica, per cogliere i molti paradossi del salutismo. Bastano i proverbi, pillole di saggezza che hanno superato la prova del tempo, che si sono fatte amiche le generazioni, ma cui il potere politico rende poco rispetto. Il buon senso è una merce che vale nulla, sul mercato dell’ideologia: dove sono le parole roboanti, le grandi ambizioni, le dichiarazioni di guerra al balcone a vincere. In quella Chanson de Roland eternamente scritta e riscritta che è il gioco di specchi delle giustificazioni, l’artificio compiaciuto di ammantare la brutale arroganza del Potere con ricami retorici e formule arabescate, la Durlindana delle buone intenzioni non si risparmia nel tagliar teste.

Non è un caso se, in un bello scritto che fa da appendice a questo libro, Murray Rothbard abbia riconosciuto che i fumatori sono la minoranza oppressa dei nostri tempi.

Né sbaglia Mina, quando vede nell’obeso (“la quintessenza dell’antiestetico”) l’“ultimo portabandiera, assieme al fumatore, del politicamente scorretto”: il ciccione è uno dei sempre più impopolari guerriglieri urbani in lotta contro lo “Stato terapeutico”, stigmatizzato dal guru dell’anti-psichiatria Thomas Szasz e trasformato da chimera ideologica a creatura pulsante di divieti e proibizioni da governi autoritari e surreali insieme, per quanto la vulgata giornalistica li ritenga colpevoli, massimo massimo, di qualche insignificante e trascurabile “eccesso di zelo”. “For your own good”, per-il-tuo-bene, è il sigillo con cui s’incarta ogni nuova trovata salutista. In tempi di relativismo culturale, il grande fratello, non ancora uscito del tutto dalle camere da letto, presidia incessantemente la cucina, attento a quel che si mangia, fiscale con quel che si beve.

“Assurdo”: non c’è altra parola per definire una situazione del genere. E nei meandri dell’assurdo si addentra il saggio che tenete fra le mani, un gran bel libro detto per inciso. Gli autori sono due scrittori di razza, la giornalista Judith Hatton e Lord Harris of High Cross, qui in gran spolvero. A firmare la prefazione all’edizione inglese, è Lord Deeds, un personaggio maiuscolo del giornalismo d’Oltremanica, cui s’ispirò nientemeno che Evelyn Waugh per il suo “Scoop” (da noi, “L’inviato speciale”) – satira feroce e ritratto impietoso di una professione.

Hatton e Harris si devono essere divertiti un mondo, a compilare quella raccolta di inediti paradossi che è questo volume.

Se oggi ne è finalmente disponibile un’edizione nella nostra lingua, il merito va tutto a Gian Turci, che con l’associazione “Forces” è impegnato a difendere le poche libertà che ci restano, e a Leonardo Facco, editore corsaro.

Conosco Lord Harris giust’appunto da quando inciampai, la prima volta, su questo “Murder A Cigarette”. E’ difficile descrivere una persona straordinaria, anche se si ha il privilegio di frequentarla con una certa assiduità. Lord Harris fa parte di quel ristrettissimo numero d’individui che possono coricarsi, la sera, con la certezza d’aver fatto la differenza, d’aver cambiato il mondo. A metà degli anni Cinquanta, abbandonò le tentazioni della politica e una promettente carriera nel giornalismo, per seguire l’invito di un allevatore di polli, Anthony Fisher. Fisher aveva letto “The Road to Serfdom” di Hayek ma, davanti alle avvisaglie del declino, fiutando la putrefazione della libertà che allora si avvertiva in Occidente (lo stesso odore, ci perseguita oggi), pensò di “scendere in campo”, di “bere l’amaro calice”, tanto per usare un fraseggio familiare a chi segue le contorte evoluzioni della politica italiana. Si consultò con Hayek, a riguardo. E il grande austriaco lo dissuase. Se quel che si ha in mente è cambiare la società, ridimensionare l’invadenza dello Stato, affermare una visione autenticamente liberale, be’, non è il Parlamento il luogo migliore per dar battaglia.

Perché di battaglia di idee si tratta, è necessario cambiare la testa della gente prima e indipendentemente dalla politica. Fisher, su consiglio di Hayek, volle tentare un esperimento: costruire un contraltare liberale a quella “Fabian Society” che tanto aveva fatto per trasformare l’Inghilterra nell’avanguardia socialista d’Occidente. Vide così la luce l’Institute of Economic Affairs, diretto appunto da Ralph Harris ed Arthur Seldon.

Questo think-tank, nato con un budget limitato ma forte di due individualità eccezionali, e in un certo senso mutuamente complementari (Harris brillante e funambolico, Seldon più metodico e accademico), avrebbe finito per arrestare il fiume in piena della retorica dello statalismo, andando a modificare i termini e gli a priori del dibattito politico. Il thatcherismo è stato certo la testimonianza più tangibile dell’azione dello IEA, ma anche il New Labour testimonia il vigore e il successo di una predicazione radicalmente liberale. Aver spostato il baricentro della discussione politica è un merito non da poco: ed è costato fatica, impegno, capacità che potevano esser profusi soltanto da due uomini fuori dalla norma.

Di solito, persone rispettate e di successo, come Lord Harris, non scrivono libri come quello che avete in mano. Si dirà: l’ha fatto perché fuma, il che, detto per inciso, è vero, non si separa mai da almeno un paio delle sue molte pipe, che alterna tra un sorriso contagioso e un commento brillante. Ma non è questo il punto. Il punto è che Lord Harris continua, con questo saggio, il suo mestiere di ieri: la lotta per la libertà, contro la barbarie dello statalismo selvaggio – nella variante arcigna della pianificazione economica, come in quella grave ma non seria del contingentamento delle porzioni e della conta delle sigarette.

E’ un lavoro a tempo pieno, che non conosce sosta, che non dà le soddisfazioni di un’occupazione più liscia e remunerata. E’ anche una passione divorante, una passione di giustizia, che sgorga dalla constatazione amara, ha scritto Sergio Ricossa, che la libertà è la più stuprata delle donne e il suo stupro è il più impunito dei delitti. La libertà: non la libertà di mangiare, quella di fumare, quella di comprare scarpe firmate o libri scomodi, perché tutte si assomigliano, tutte sono una.

Non è un caso che la lotta al fumo (come se fosse contro il “fumo” che si lotta, e non si avessero di mira, più concretamente, coloro che fumano) finisce per andare a ledere diritti di proprietà di alcuni singoli individui. I proprietari di locali aperti al pubblico, nello specifico, cui qualcun altro impone una forma di discriminazione (contro i clienti che fumano), impedendo loro al tempo di aprire la porta a chi desiderano e di sbatterla in faccia ai clienti sgraditi. Siamo a tal punto abituati a vivere in regime di “proprietà limitata” che il fatto che lo Stato imponga a un ristoratore quale dev’essere la sua clientela non ci scandalizza più.

Judith Hatton e Lord Harris dimostrano, nelle pagine che seguono, che non solo c’è qualcosa di inevitabilmente sbagliato e moralmente ripugnante nel proibire a un uomo di fare del proprio corpo l’uso che preferisce, ma che ne deriva una cascata di assurdità che avrebbero potuto esserci risparmiate, facendo appena appello al buonsenso. Che libertà e buon senso, e non diversamente statalismo e follia, vadano a braccetto è la vera lezione che si può trarre da questo libro. Uno sguardo al presente ci farebbe concludere che è una lezione che pochissimi hanno voglia d’imparare, ma è l’esperienza di Lord Harris a riaccendere una fiammella di ottimismo. Combattere per ciò in cui si crede, c’insegna, non è mai una perdita di tempo: e le idee buone, alla lunga, la vincono. E’ la storia che ci insegna a sperare.

Alberto Mingardi

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