LUDWIG VON MISES – La Mentalita’ Anticapitalistica

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La mentalità anticapitalistica è l’atteggiamento dei risentiti che aspirano ad una sistemazione parassitaria sottratta alla competizione

Istituto Liberale, 2020, pag. 125

COD: 018-23 Categoria:

Descrizione

“La mentalità anticapitalista” è la celebre analisi culturale, sociologica e psicologica di Ludwig von Mises sul rifiuto del libero mercato da parte di moltissimi intellettuali. Con un linguaggio scorrevole, l’autore discute con chiarezza e lucidità gli elementi principali che caratterizzano il capitalismo, il modo in cui questo sistema è visto dall’uomo comune, la letteratura sotto questo modello economico e le principali obiezioni alle società capitaliste, oltre a trattare la questione dell’anticomunismo.

INDICE DEL LIBRO

Introduzzione di Ludwig von Mises

1. Le caratteristiche sociali del capitalismo e le cause psicologiche della sua demonizzazione

2. La filosofia sociale dell’uomo comune

3. La letteratura sotto il capitalismo

4. Le obiezioni non economiche al capitalismo

5. Anticomunismo contro capitalismo

1 recensione per LUDWIG VON MISES – La Mentalita’ Anticapitalistica

  1. Carlo Zucchi

    Recensione di Carlo Zucchi

    In questo libro del 1956, Ludwig von Mises, esponente di primissimo piano della Scuola Austriaca di economia, ci offre un quadretto interessante della mentalità che sembra pervadere quella categoria di risentiti, incapaci di misurarsi con le sfide che impone loro quel giudice imparziale per eccellenza, che è il mercato. Queste persone alla perenne ricerca di una “sistemazione a vita” strappata al di fuori della competizione sembrano mostrare una particolare attrazione per “nicchie ecologiche” protette al riparo dalle “intemperie” del mercato. L’esito di tutto ciò è lo sgomento di quanti si rifiutano di partecipare a quel grande procedimento di scoperta che è il mercato.

    Considerando il “risentimento” quale variabile esplicativa della mentalità anticapitalistica, Mises, risalendo al De officiis di Cicerone scrive: “Pur attraverso tutti i cambiamenti nel sistema prevalente di stratificazione sociale, i moralisti hanno continuato a tenere fede all’idea fondamentale della dottrina di Cicerone secondo cui fare soldi è degradante. Essa esprime l’idea dei grandi proprietari aristocratici, dei cortigiani dei principi, degli ufficiali dell’esercito e dei funzionari governativi. Era anche il punto di vista dei letterati, sia che vivessero come poveri alla corte di un grande sovrano, sia che potessero lavorare sicuri come beneficiari di prebende ecclesiastiche…Forti della loro posizione nella gerarchia della chiesa, dei loro incarichi pubblici e del servizio militare, gli intellettuali hanno giudicato con sdegno l’uomo d’affari che serve Mammone.

    Essi hanno assunto il punto di vista comune a tutti coloro che in virtù di un reddito proveniente dall’imposizione vengono sollevati dalla necessità di guadagnarsi da vivere sul mercato. Questo disprezzo si è trasformato in rancore corrosivo quando, con l’espandersi del capitalismo, gli imprenditori hanno conquistato grandi ricchezze e grande stima popolare. Sarebbe perciò un grave errore ritenere che l’ostilità nutrita verso gli imprenditori ed i capitalisti, verso la ricchezza e specialmente verso gli affari e la speculazione e che oggi domina la nostra vita pubblica, la politica e la letteratura derivi dai sentimenti delle masse”.

    Il fatto che l’ostilità verso il capitalismo non sia causato dall’immiserimento delle masse è provato da quanto disse Lenin, ossia che “quanto più rapidamente aumenta la ricchezza, tanto più rapidamente si sviluppano le forze produttive e la socializzazione del lavoro, tanto migliore è la situazione dell’operaio”.

    Anche Lenin, quindi, era consapevole del fatto che, quanto a benessere materiale, il capitalismo non ha rivali e forse proprio per questo nutriva verso di esso un odio così intenso.

    Lo stesso Marx sosteneva che Proletario non è chi vive materialmente la povertà, bensì chi si sente escluso e frustrato: “non la povertà sorta naturalmente, bensì la povertà prodotta artificialmente, non la massa meccanicamente oppressa dal peso della società, ma la massa di uomini che proviene dalla sua acuta dissoluzione, e segnatamente dalla dissoluzione del ceto medio, costituisce il proletariato…”. Colpa della società di mercato, quindi, sta nel consentire a ciascuno di misurare il proprio valore, i propri successi e i propri fallimenti.

    Non è quindi la miseria materiale il punto del contendere, ma l’ambizione frustrata e il paragone con chi, partendo alla pari con altri, finisce per raggiungere traguardi ineguagliabili, provocando invidia e risentimento in chi è meno capace. Ma l’ineguaglianza di risultato è il sale della competizione, e la società aperta è impossibile senza la logica competitiva. Senza mercato non c’è società aperta, e il risentimento contro il mercato è il risentimento contro la civiltà.

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