PIROVANO, DESIDERIO – Economia Arcaica O Di Rapina

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La diffusione di idee economiche errate, purtroppo diffuse anche tra i cattolici, non permette di distringuere tra le economie basate sulla produzione e lo scambio (che generano ricchezza) e le economie di rapine, che conducono alla miseria

Edizioni: Rubbettino   Anno: 2004   pag. 220

COD: 018-309 Categoria:

Descrizione

 

Nell’economia antica le forme tipiche di ricchezza erano l’oro e la terra, cioè due beni naturali irriproducibili, disponibili in quantità globale fissa. Di qui il diffuso pregiudizio che i ricchi di solito siano ricchi perché hanno portato via ai poveri i beni in causa.

1 recensione per PIROVANO, DESIDERIO – Economia Arcaica O Di Rapina

  1. Libreria del Ponte

    Recensione di Dario Antiseri

    Economia arcaica o di rapina è il titolo del libro di don Desiderio Pirovano, che l’editore Rubbettino ha inviato proprio in questi giorni in libreria.

    Scrive il cardinale Camillo Ruini nella Presentazione: «Con piacere presento il libro del caro don Pirovano, che alcuni fedeli della Parrocchia di San Mattia hanno avuto il desiderio di pubblicare “postumo”, per onorare la memoria del loro parroco, notevole studioso di economia, morto nel 1998». E prosegue: «Il libro si inserisce nel filone tracciato da don Angelo Tosato, altro studioso di economia, ma soprattutto di esegesi biblica, il quale cercò di mettere in chiaro come nel Vangelo non vi fosse affatto una condanna tout-court della ricchezza in se stessa, ma piuttosto il biasimo per l’uso distorto che l’uomo, nel suo egoismo, può farne a danno degli altri».

    Infatti in Vangelo e ricchezza (opera edita sempre da Rubbettino), Tosato ha smascherato, tramite uno scrupoloso studio esegetico, tutta “una congerie di luoghi comuni” dove si ripete che nel Vangelo ci sarebbe la più dura condanna dei ricchi e della ricchezza. Senonché, ha fatto vedere Tosato, il Vangelo non condanna i ricchi in quanto tali né impone loro di sbarazzarsi della loro ricchezza. Quel che il Vangelo condanna è il farsi schiavo della ricchezza, eleggendola a proprio kýrios, promovendola a proprio Dio. E’ così che diventa comprensibile il detto evangelico «Non si può servire a due padroni… Dio e mammona».

    In un precedente lavoro (Poveri, perché? Un cristiano si interroga, 1995), don Pirovano si era impegnato nella critica della tesi di Lenin secondo la quale chi si arricchisce lo fa sempre a spese degli altri – tesi ampiamente smentita dai fatti in quanto «ci si può arricchire senza far guerre, senza avere colonie (Svizzera, Danimarca, Svezia, Austria), ci si può arricchire dopo aver perso le colonie (Italia, Belgio, Olanda, Inghilterra – dopo la seconda guerra mondiale -) e domini imperiali che hanno spolpato le nazioni sottomesse, non hanno arricchito i dominatori – si pensi all’impero ottomano, che non era altro che una “macchina da saccheggio” dominata esclusivamente da esigenze di guerra permanente».

    Ebbene, nel presente lavoro, don Pirovano punta l’attenzione sul fatto che nell’economia antica forme tipiche di ricchezza erano l’oro e la terra, beni naturali irriproducibili e disponibili in quantità globale fissa, per cui chi ne voleva di più bisognava che li sottraesse ad altri mediante la rapina e con la guerra. Ma, fa notare Pirovano, la situazione è ben diversa nell’economia moderna dove capitali, risorse umane, innovazioni e libera iniziativa sono orientate prevalentemente alla creazione di nuova ricchezza mediante la produzione.

    Dunque, due economie a confronto, l’economia “di rapina” e l’economia “di produzione”: pur se in diversa misura nelle due differenti forme, «non c’è economia di rapina in cui non si produca, né economia di produzione in cui non si rubi». Ed è proprio nei tratti dell’economia predatoria fondata sulla guerra, sul disprezzo del lavoro e sulla passione per lo spreco che don Pirovano, con impressionante documentazione, affonda le sue sonde. E fa questo con l’intento di far comprendere, soprattutto al mondo cattolico, che in una mutata realtà economica, «dove la ricchezza principale è data dal capitale il quale può essere prodotto all’infinito, l’esercizio della carità dovrebbe realizzarsi proprio in questa attività produttiva». Carità – scrive l’autore – «che, oggi, potrebbe voler dire lavorare bene e farsi lo scrupolo di lavorare bene, organizzare in maniera intelligente il proprio lavoro in modo da renderlo più produttivo e aumentare, in questo modo, il benessere sociale».

    Pirovano invita a riflettere sul fatto che nella tradizione cristiana il più delle volte non si sia riusciti a concepire altro mezzo per aiutare il prossimo se non quello dell’elemosina, «del trasferimento di ricchezza da chi ne ha di più a chi ne ha di meno ». Però, mentre la produzione è un processo che accresce la generale disponibilità dei beni, l’elemosina è un processo opposto, che la diminuisce, sino ad esaurirla. La cosa appare chiara, scrive don Pirovano, qualora si riporti alla memoria la leggenda di san Martino, così come ci è stata narrata da ragazzi. Costui incontra d’inverno sulla strada un povero stremato dal freddo, prende la spada, taglia il suo mantello e ne dà la metà al povero. Ed ecco il commento di Pirovano: «La storia, prudentemente, si ferma qui. Ma sulla strada non c’è mai un solo povero, per cui se al primo san Martino poté dare mezzo mantello, al secondo avrebbe potuto darne solo un quarto, al terzo un ottavo e al quarto un sedicesimo: qualcosa come un fazzoletto». La verità è che «l’elemosina, praticata spesso anche in forme eroiche, non è mai riuscita a sconfiggere la povertà di massa. Pietro Valdo, Francesco d’Assisi e tanti altri non hanno portato alcun vantaggio economico alla società del loro tempo».

    Un libro coraggioso destinato a far discutere, questo di don Desiderio Pirovano, un’opera che si situa nella grande tradizione di quel cattolicesimo liberale che va da Tocqueville a Novak, passando per figure come Bastiat, Rosmini, Röpke, Einaudi, Sturzo, Garello, fino a don Angelo Tosato.

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