TEDESCO, LUCA – L’Alternativa Liberista In Italia

 8,00

I liberisti radicali (1894-1904)

Le idee e le proposte dei liberisti radicali italiani a cavallo del secolo

Edizioni: Rubbettino   Anno: 2002   pag. 264

COD: 018-187 Categoria:

Descrizione

Il volume ha per oggetto la vasta e articolata azione sviluppata dai radico-liberisti, corrente minoritaria ed eterodossa del radicalismo politico italiano, al fine di pervenire ad una compiuta democratizzazione del sistema politico e istituzionale tra ’800 e ’900. Snodandosi tra la crisi di fine secolo e la conclusione dei trattati commerciali con gli imperi centrali nella metà del primo decennio del Novecento, esso prende in esame la concezione dell’evoluzione sociale ed il rapporto governo-governati dei liberisti radicali, la riforma tributaria e doganale da essi avanzata, chiave di volta del progetto di trasformazione democratica delle istituzioni, nonché i tentativi di definire su tale impianto programmatico un’alleanza con le altre forze dell’Estrema Sinistra; radicali, socialisti e repubblicani. Nella loro elaborazione però i liberisti radicali, se non per alcuni versi Pantaleoni, non giunsero mai a teorizzare la necessità di adottare un completo laissez-faire, inteso come diffidenza assoluta e pregiudiziale nei confronti dell’intervento dei poteri pubblici in materia economica. Loro preoccupazione costante fu invece che tale intervento perseguisse sempre gli interessi generali senza piegarsi a trattamenti di favore a beneficio di ristretti gruppi di pressione. Ma il tentativo di creare una maggioranza di governo fondata sull’alleanza tra interessi agricoli legati all’esportazione e la non meglio specificata galassia dei salariati-consumatori sarebbe fallito negli anni del primo take-off industriale italiano.

1 recensione per TEDESCO, LUCA – L’Alternativa Liberista In Italia

  1. Libreria del Ponte

    Recensione di Carlo Lottieri

    Può oggi sembrare strano e perfino sorprendente, ma esattamente un secolo fa le tesi dei più accesi fautori del mercato, pur minoritarie, erano accolte soprattutto all’interno di quella che allora era chiamata l’Estrema Sinistra. Dentro il partito socialista, in effetti, militavano marxisti massimalisti ed anti-turatiani come Enrico Leone e Romeo Soldi che auspicavano l’abolizione di ogni dazio e di ogni forma di bardatura corporativa, mentre nel campo radicale il gruppo dei liberisti includeva Antonio De Viti De Marco, Edoardo Giretti, Maffeo Pantaleoni, Francesco Papafava e Guglielmo Ferrero. Grazie all’editore Rubbettino, è oggi possibile approfondire la conoscenza di quei dibattiti e soprattutto di questo secondo gruppo di studiosi e uomini politici a cui Luca Tedesco ha dedicato un ampio saggio ( L’alternativa liberista in Italia. Crisi di fine secolo, antiprotezionismo e finanza democratica nei liberisti radicali, 1898-1904 , in vendita a 8 euro) che fa il punto sui meriti e sui limiti di quella battaglia intellettuale, destinata ad essere travolta dall’avvento di forze del tutto ostili all’economia privata.

    Il volume di Tedesco offre più di un motivo d’interesse, soprattutto per l’attualità delle tesi di quanti consideravano fondamentale l’abbandono del protezionismo. Contro l’Europa di Bismarck e di Crispi, i liberali di fine Ottocento si fecero infatti apostoli di concezioni individualiste che anteponevano la libera scelta del singolo ad ogni forma di mito collettivista. È in questo senso interessante rilevare che, allora come oggi, uno dei tratti più specifici della prospettiva liberista fosse proprio da riconoscere nel rigetto del militarismo. In questo senso, Tedesco sottolinea come Ferrero vedesse nella Germania guglielmina un modello sociale autoritario e negatore di ogni pacifica operosità, mentre De Viti De Marco riconduceva le difficoltà connesse alla costruzione del governo Zanardelli d’inizio 1901 alla volontà di «non contenere le spese militari nei limiti effettivi dei 239 milioni».

    Per i liberisti, insomma, il rifiuto delle tasse doganali e la riduzione delle spese pubbliche (a partire da quelle destinate a sostenere sogni imperialisti) erano dunque i due lati di una medesima medaglia. Se il Paese voleva crescere e modernizzarsi appariva necessario favorire la libera iniziativa e abolire ogni vincolo per importazioni ed esportazioni. Quanto in quegli anni fosse viva l’attenzione alle ragioni dell’economia di mercato emerge nettamente anche da un altro volume ( L’edilizia popolare in Italia agli inizi del Novecento ), curato da Massimo Baldini sempre per Rubbettino, in cui sono raccolti alcuni saggi apparsi in quegli stessi anni su La Critica Sociale e che mantengono intatta, dopo più di cent’anni, la loro attualità. Dalla lettura di tali scritti appare chiaro, in effetti, come tra “patti in deroga” e residui dell’equo canone l’Italia odierna non abbia ancora compreso la lezione di quegli studiosi, tra cui figura lo stesso Costanzo Einaudi (fratello minore del futuro primo presidente della Repubblica), che nello studio sul Problema delle case popolari all’alba del secolo XX sostiene che per assicurare una casa a chi ne è privo si deve in primo luogo l’eliminare ogni impedimento alla libera contrattazione ed aumentare gli spazi di libertà.

    Tali idee, tra l’altro, erano talmente comuni da essere condivise pure da non pochi socialisti dell’epoca, come quel Bachi convinto che «la fissazione di un calmiere delle pigioni non potrebbe avere che un’efficacia nulla e transitoria, e dannosa agli inquilini stessi». In pochi anni, però, il clima culturale muterà in profondità e quel liberalismo diffuso verrà marginalizzato.

    In particolare, il gruppo dei liberisti radicali sarà prima sconfitto dall’affarismo e dal pragmatismo giolittiani, per poi essere definitivamente cancellato dall’ avvento della democrazia di massa e del fascismo. A questo proposito va detto che uno dei limiti intellettuali maggiori di tali liberisti della Belle Époque è da riconoscere proprio nella loro ingenua sopravvalutazione dei moderni sistemi rappresentativi, che hanno proprio moltiplicato quegli stessi mali contro cui Pantaleoni e De Viti De Marco combatterono le loro battaglie. Essi si illusero di poter fare dello Stato un arbitro imparziale e videro nella democrazia una positiva opportunità in tal senso, ma il successo delle forze collettiviste ed autoritarie spazzerà via definitivamente le loro illusioni. A distanza di un secolo, è interessante notare come vi siano questioni che si ripropongono esattamente negli stessi termini, anche se appaiono mutati tanto il quadro generale come il clima complessivo. Se il Novecento è stato l’epoca del trionfo dello Stato, l’età dei Lager nazisti e del gulag comunisti, delle guerre mondiali e delle “pulizie etniche”, per i liberisti di oggi è più agevole mettere in guardia di fronte alla natura al potere, che tende spontaneamente ad espandersi e rischia in ogni momento di trasformarci in puri oggetti di una volontà cieca. L’irrazionalità dei monopoli pubblici e della burocrazia, il dilatarsi del prelievo fiscale, l’attualità delle guerre ‘umanitarie’ e tutto quanto di insensato ci proviene dalle varie classi politiche dovrebbero averci ormai fatto comprendere l’esigenza di ridurre quanto più è possibile i poteri pubblici: dando spazio all’autonomia dei singoli e delle comunità volontarie, delle associazioni e delle imprese, delle chiese e delle famiglie. Oltre a ciò, la stessa teoria liberale è cresciuta: recuperando le proprie ragioni più profonde e talora anche radicalizzandosi sul piano teorico, ma solo dopo aver lasciato alle spalle tutta una serie di inutili ottusità.

    All’epoca di Pantaleoni e Vilfredo Pareto, De Viti De Marco e Ferrero, il liberismo era tutt’uno con una cultura risorgimentale fortemente avversa al cattolicesimo e non di rado ancorata a dogmi positivisti. Anche al di fuori dell’Italia, la teoria liberale si concepiva spesso come intimamente anti-metafisica, come se per essere tolleranti fosse necessario non avere principi né valori assoluti. Per questo motivo, la libertà individuale era difesa più sulla base di argomenti “utilitaristici” che non a partire da una comprensione del valore dell’uomo.

    Grazie al fondamentale contributo di alcuni studiosi americani (Murray N. Rothbard, in primo luogo), il liberalismo contemporaneo ha oggi riannodato i propri legami con la teoria del diritto naturale. È perché gli uomini possiedono diritti inalienabili che l’espansione del potere statale è insopportabile e lesiva della dignità propria di ogni singolo. Se quindi, da un lato, il liberalismo contemporaneo è anche più estremista del liberismo di un secolo fa e non teme – nei suoi interpreti maggiormente coerenti – di negare alla classe politica il diritto a disporre della vita e delle risorse altrui, è pur vero che esso va scoprendo con crescente interesse le proprie radici religiose. È in virtù dell’antropologia cristiana emersa nel corso degli ultimi due millenni, infatti, che oggi noi siamo portati a valorizzare ogni uomo e ad accogliere l’idea che la “coercizione”, in quanto tale, sia ingiustificata ed illegittima.

    Come il libro di Tedesco testimonia, il liberismo di primo Novecento, nel migliore dei casi, era alla ricerca di una relazione non conflittuale con la tradizione cattolica, che però esso considerava sostanzialmente illiberale. Ora, al contrario, anche molti liberali non credenti ammettono che il liberalismo non sarebbe neppure pensabile senza l’idea di persona che l’annuncio evangelico ha affermato in Occidente e senza il rigore etico che sostanzia ogni esperienza autenticamente cristiana. Quello contemporaneo è quindi un liberalismo che valorizza le tradizioni schierate a tutela della libertà individuale, che apprezza le autorità se esse sono liberamente scelte (come nel caso della Chiesa), che non oppone individui e comunità ed anzi vede nella famiglia una libera associazione di persone autonome. Nel secolo scorso il mondo intero è cambiato sotto molti di punti: anche il pensiero liberale ne ha preso atto.

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