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INDICE DEL LIBRO
Prefazione di Carlo Stagnaro -La diffamazione dei piccoli Stati Postfazione di Carlo Lottieri ************************************ Recensione di Carlo Lottieri Sono trascorsi quattro anni da quando, nell’estate del 2001, Gianfranco Miglio se n’è andato. Lo scienziato politico più controcorrente dell’Italia del ventesimo secolo ha lasciato però lezioni importanti: insegnando – in primo luogo – che la vita sociale deve nascere dal consenso e quindi da patti liberamente sottoscritti; che la politica statuale degli ultimi secoli è stata dominata da irresponsabilità e degrado civile; che la civiltà occidentale ha preservato alcune delle sue migliori qualità non già nei grandi Stati che dominano la scena internazionale, ma in piccole istituzioni gelose delle loro antiche libertà. Non è quindi un caso se Gilberto Oneto, da anni direttore dei Quaderni Padani (la migliore rivista dell’indipendentismo settentrionale), ha voluto dedicato proprio al professore comasco il suo ultimo lavoro (Piccolo è libero. Il ruolo dei piccoli Stati nella storia dell’Europa moderna), edito da Leonardo Facco e in vendita a 15 euro. Il volume, che reca in copertina la fotografia di una Landsgemeinde (assemblea popolare) del piccolo cantone di Glarus, si segnala per molte ragioni. A partire dalla frase ad esergo, che recita: “Dedicato a Gianfranco Miglio, che avrebbe voluto essere cittadino di uno Stato più piccolo e più libero”. Per giunta, questo di Oneto è un testo di notevole interesse per le molte informazioni sul nostro passato: sul quell’insieme di città libere, ducati, contee, repubbliche e castelli che ancora nell’Ottocento caratterizzavano la geografia politica del Vecchio Continente. Rievocando quel mondo che non c’è più, Oneto mostra come la storia moderna sia passata come un rullo compressore su una rete articolata di antiche autonomie, che il giacobinismo e il nazionalismo hanno soppresso con la forza delle armi. Ma il volume evidenzia pure come almeno una parte di quel mondo sia vivo tuttora e come – in Europa e in altre parti del mondo – permangano istituzioni davvero minuscole, che favoriscono una convivenza di migliore qualità: dai cantoni svizzeri alla Città del Vaticano, dal Lussemburgo a Monaco. Soprattutto, però, il volume si sforza di evidenziare come – sul piano teorico – le piccole comunità offrano un’affascinante alternativa di fronte al fallimento degli Stati moderni: non solo distruttori di risorse e responsabili di guerre sanguinose, ma vere e proprie macchine da guerra schierate contro i diritti, le fedi e i valori dei loro “sudditi”. Se dieci secoli di monarchia e due secoli di repubblica, in Francia, hanno quasi totalmente cancellato ogni tradizione locale e – specie nell’età moderna – hanno imposto una nuova “religione civile” sulle ceneri del cattolicesimo di un tempo, quella delle piccole comunità è una civiltà in cui può è ancora legittimo essere provenzali, bretoni o alsaziani, e dove non c’è alcuna ideologia immanente che pretenda di sostituirsi alle fedi liberamente adottate. In questo universo è anche possibile – come in età medievale – fare emergere dal nulla un proprio principato, come fece nel 1967 Michael Bates, proprietario di una piattaforma di 550 metri quadrati al largo delle coste inglesi, che proclamò l’indipendenza del suo possedimento e ebbe numerosi riconoscimenti dalla stessa Gran Bretagna, dato che in tutta una serie di cause intentate contro di lui dal governo londinese (per ragioni fiscali, ad esempio) i tribunali di Sua Maestà si sono dichiarati incompetenti proprio perché quel territorio si trova fuori dalle acque territoriali. Il caso di Sealand – questo è il nome dell’istituzione creata da Bates – è poco più che una curiosità, ma dimostra che anche in ambito istituzionale vi può essere spazio per la libertà d’iniziativa che caratterizza l’economia libera. E se quella di Sealand è una realtà poco nota, tutti conoscono Montecarlo, un paesotto della costa ligure che in meno di un secolo è diventato una realtà di primissimo piano e un centro economico di rilievo. E il successo di Montecarlo – detto anche “Grimaldi Spa” – attesta quanti benefici possano derivare dalla facoltà di amministrarsi da sé: riducendo le tasse, eliminando gli sprechi, cancellando ogni normativa inutile, facendo ponti d’oro a chiunque sia interessato ad investire e portare sviluppo. È quasi una regola aurea: le libertà individuali e la prosperità fioriscono nei piccoli Stati ben più che in quelli grandi, dato che le realtà di dimensioni ridotte offrono maggiori garanzie di poter vivere entro un ordine giuridico rispettoso dei diritti dei singoli. In effetti, come sottolinea Carlo Stagnaro nella prefazione, le piccole realtà non possono chiudersi al libero commercio, dato che hanno bisogno di molti beni e servizi prodotti all’esterno. Per giunta, esse evitano di costruire pesanti apparati parassitari, dato se qualcuno pretende di gravare sulle spalle di altri è facilmente individuato e deve subire la reazione dei concittadini. Soltanto negli Stati grandi o medio-grandi (l’Italia, ad esempio) è possibile una massiccia redistribuzione delle risorse; ovvero, come disse Miglio stesso, è possibile che qualcuno possa “mettere la mano nella tasca di un cittadino e trasferire le risorse di quel cittadino ad altri cittadini”. Nella sua difesa delle virtù dei piccoli Stati contro il gigantismo delle super-potenze Oneto riesce quindi assai convincente. Anche perché la sua è una invettiva contro la retorica patriottarda, i luoghi comuni dei libri di testo, le verità obbligate e la pigrizia di un sistema informativo che troppo spesso è asservito alle verità di regime. Egli scende in campo non solo contro lo statalismo otto-novecentesco (variamente nazionalista, socialista, coloniale, guerrafondaio), ma anche contro il mito dei grandi uomini, dei grandi partiti, dei grandi eserciti. Alla Persia o all’Egitto degli imperi mastodontici egli oppone la civiltà della piccola Atene, dove sono fiorite la filosofia classica e la democrazia antica. Alla potenza di fuoco delle armate russe o americane che hanno sconvolto il “secolo breve” egli oppone quelle piccole città tardo-medievali in cui è fiorita la cultura mercantile che ha dato vita al capitalismo europeo. Alla megalomania degli Stati egli oppone la dignità dei piccoli borghi, delle minoranze orgogliose, delle comunità consapevoli. Nello stesso pensiero di Miglio vi è più di una traccia per cogliere le ragioni profonde della superiorità delle piccole comunità. Nella sue Lezioni di politica pura vi è quella “teoria della doppia obbligazione” (politica e giuridica) che sottolinea proprio come il diritto sia l’universo della responsabilità, dei piccoli numeri, del rispetto reciproco, mentre la politica è per sua natura marcata dall’irresponsabilità, dai grandi numeri, dalla prepotenza. L’obbligo giuridico è limitato nel tempo e nel contenuto, e si preoccupa degli interessi delle parti (come avviene, appunto, nelle comunità care a Oneto), mentre l’obbligo politico si vuole perpetuo, indeterminato, e non ha timore di chiedere ogni genere di sacrificio a quanti sono coinvolti nelle sue spire. Leggendo Piccolo è bello si percepisce come Oneto insegua con coerenza il sogno di una sua Contea tolkieniana, che riconduca le relazioni sociali “a dimensioni umane”, e lo faccia con la consapevolezza che Montecarlo o Vaduz sono oggi realtà assai civili e moderne anche se sono all’interno di piccole realtà, e – anzi – proprio per quello. L’Indipendente, 30 settembre 2005 ************************************ Recensione a cura di Paolo Marcon «In nome del Signore, Amen. Egli è prender cura di ciò che è onesto e provvedere all’utilità pubblica il fondare, in tempo di quiete e di pace, i patti sopra solide basi. Si sappia dunque universalmente che gli uomini della valle d’Uri e la comunità della valle di Svitto e quella degli uomini d’Unterwalden della valle inferiore, considerando la malizia del tempo, e per esser meglio in grado di difendere e di conservare in buono stato sé, i loro beni e i loro diritti, hanno promesso in buona fede di assistersi reciprocamente d’aiuto, di consiglio e di favori, tanto riguardo alle persone che alle cose, dentro e fuori delle valli, con tutti i mezzi in loro potere, contro tutti ed ognuno che ad essi o ad uno di essi facesse violenza o causasse torto o molestia macchiando qualche male contro le persone o le cose». Bene, ora che avete letto il “patto eterno” solennemente sottoscritto nell’agosto 1291 dai rappresentanti delle prime tre comunità di valle svizzere, provate a confrontarlo, chessò, col testo della nuova costituzione europea. Siete sopravvissuti? Se siete sopravvissuti, potreste certo argomentare molto cartesianamente che sì, c’è una bella differenza (la stessa che passa più o meno fra la Santa Messa e un’assemblea di condominio), però non si può paragonare l’imparagonabile, però non si possono accostare semplici anticaglie a complesse modernità, però i Waldstätten (“Stati dei boschi”) svizzeri sono un caso unico nella storia, però però però, le piccole comunità hanno avuto hanno ed avranno un ruolo del tutto marginale ed insignificante nella storia delle grandi civiltà, non è ad esse che dobbiamo guardare, ma alla storia scritta magnificamente dai grandi imperi pagani, dai grandi stati, dai grandi statisti… dai grandi carnefici. Beh, se così la pensate (più o meno apertamente), vi meritate un bel 10, avete imparato perbenino la lezione. Quella somministrata nella scuola obbligatoria dello stato giacobino. La lezione che vorrebbe costringere ad amare ciò che non si può amare: «lo stato è una cosa fredda che non può essere amata; ma esso uccide e abolisce tutto quel che potrebbe essere oggetto di amore; e quindi si è costretti ad amarlo, perché non c’è nient’altro. Questo è il supplizio morale dei nostri contemporanei»; parole di Simone Weil, sensibile indagatrice del progetto titanico di sradicamento della modernità politica. Sue anche queste altre: «Se lo stato ha ucciso moralmente tutto quel che, dal punto di vista territoriale, era più piccolo di lui, ha anche trasformato le frontiere territoriali nelle mura di un carcere, per imprigionarvi i pensieri». Se così stanno le cose, e ahinoi così stanno le cose, urge liberare la storia dai pregiudizi che oscurano il seguente dato concreto di realtà: “libertà e civiltà si sviluppano meglio e naturalmente nelle comunità più piccole”. E, parafrasando S. Weil, un’organica civiltà d’amore non può che costruirsi nel pluralismo dei centri di potere, nella concorrenza istituzionale che riflette la molteplicità delle culture e delle tradizioni particolari nonché la diversità degli interessi, nell’assenza di diktat ideologici e politici, nel rispetto del diritto naturale all’autodeterminazione delle comunità e degli individui, nella fedeltà assoluta alla libertà e all’identità dell’essere umano (non c’è libertà senza identità, non c’è identità senza libertà), nella consapevolezza del valore profondo, intangibile, della proprietà privata. Ci accompagna abilmente ad approfondire questi dati di realtà il nuovo libro di Gilberto Oneto, pubblicato da Leonardo Facco Editore (in collaborazione con La Libera Compagnia Padana): Piccolo è libero: il ruolo dei piccoli stati nella storia dell’Europa moderna. Smascherati puntualmente i tentativi di diffamare quelli che con brutta parola sono battezzati dalla letteratura anglosassone “Microstati”, l’autore vi passa in rassegna onestamente le qualità, soffermandosi sui vantaggi e gli svantaggi degli stessi, ma soprattutto sulle modalità con cui i due grandi motori della dissoluzione modernista (stato cosiddetto nazionale e rivoluzione) hanno cancellato dalla carta geopolitica dell’Europa quella frammentazione territoriale che Solgenytsin definì: i “mille colori della libertà”. Colori che hanno fatto la ricchezza dell’Europa, garantendo, nei limiti dell’umanamente possibile, libertà, prosperità e progresso ai suoi figli. Si pensi soltanto alle opportunità offerte dal poter scegliere fra molteplici modelli istituzionali all’interno della stessa area culturale. Si pensi soltanto alle logiche consensuali che fondano le piccole libere comunità contrapposte alle logiche coercitive di quelle istituzioni moderne che – come nota Lottieri nella Postfazione – «nessuno di noi ha mai scelto, ma che tutti noi dobbiamo subire». Si pensi soltanto alla differenza fra le poche risorse di cui necessita una piccola comunità e le ingenti risorse che nutrono il progetto di burocratizzazione della società, un’immensa quantità di denaro raccolto espropriando proprietà private (con la rapina dell’elefantiaco sistema fiscale, la vera violentissima novità delle organizzazioni politiche moderne) ed utilizzato per slegare l’uomo dalle sue appartenenze, in un progetto astratto che calpesta quotidianamente il diritto naturale come le antiche autonomie e libertà. Autonomie e libertà che nell’area germanica dell’Europa sopravvissero più a lungo, come osserva acutamente Oneto, grazie all’ombrello imperiale che ritardò l’affermazione di quello schiacciasassi che è lo stato cosiddetto nazionale, il Leviatano spacciatosi per unico possibile tutore dell’ordine politico. Autonomie e libertà che, al pari delle proprietà collettive delle nostre vallate alpine, furono annientate non già da un principio di cattivo turbocapitalismo, sul governo del quale hanno costruito e costruiscono le loro fortune (politiche e non) tutti i servi di Mammona ma, come ricorda precisamente Oneto, dai codici napoleonici. Ma a che prezzo l’immaginario dell’uomo europeo si è fatto colonizzare dalla finzione rivoluzionaria del “contratto sociale”, dalla finzione rivoluzionaria della “rappresentanza senza vincolo di mandato”, dalla finzione rivoluzionaria della coincidenza tra volontà legislativa e volontà generale (?), dalla finzione rivoluzionaria della corrispondenza fra Stato popolo e nazione e, per citare Paolo Grossi, dalle altre finzioni rivoluzionarie che costituiscono le “mitologie giuridiche della modernità”? Lo stato moderno ha occupato la società civile, dopo aver annientato ogni espressione di libertà e di identità. Ha combattuto la Chiesa, gli ordini religiosi e la religione, relegandola, in nome della “laicità” dello stato, a fatto privato che nulla può insegnare alla convivenza civile. Conseguentemente, ha calpestato prima, del tutto rimosso poi, il diritto naturale, riducendo la legge a questione autoreferenziale della classe politica. Si è impadronito di settori strategici come l’educazione soffocando in tal modo la possibilità di ogni serio dibattito culturale, ha mandato a morte milioni di uomini, e poi ha sfruttato tali morti per amplificare la sua fama, ha attaccato brutalmente le famiglie, sottraendogli la responsabilità dei figli, ha calpestato la libertà di tutti i corpi intermedi, e, da ultimo, ma non in ordine di importanza, ha aggredito le proprietà private (cominciando significativamente da quelle della Chiesa per arrivare a quelle dei privati cittadini), negando ogni responsabilità personale (tanto ci pensa l’impersonale welfare) e chiudendo l’uomo in una gabbia che gli complica le possibilità di salvezza. Il libro di Gilberto Oneto – impreziosito dalla Postfazione di Carlo Lottieri e dalla Prefazione di Carlo Stagnaro (che ci consegna una triste, purtroppo veritiera, immagine dell’Italia) –, merita di esser letto perché chiarisce questi passaggi con riferimenti storici puntuali, e per almeno altri due motivi. Il primo è la creativa lungimiranza dell’autore, la capacità di guardare al futuro come una terra di libertà sottratta ad un destino infausto già scritto una volta per sempre. La convergenza degli ideali e degli interessi degli identitari e dei libertari consente di guardare ai piccoli stati europei sopravvissuti alla modernizzazione politica come a modelli pienamente appartenenti alla nostra cultura e alla nostra civiltà, dunque alle nostre possibilità. Le spinte identitarie ed autonomiste si accompagnano in tutto il mondo allo sforzo per la riconquista della libertà oltraggiata, che passa innanzitutto attraverso una maggior consapevolezza storica ma anche inevitabilmente attraverso l’auspicata frammentazione degli ordinamenti politici artificiali della modernità (gli “oggetti nichilistici” di jüngeriana memoria), con la costituzione di comunità autonome e “città private”. Libere di decidere il loro destino, abitate da uomini liberi di decidere il proprio destino. Infine, l’ultima ragione per cui si consiglia di leggere Piccolo è libero: il ruolo dei piccoli stati nella storia dell’Europa moderna è la più semplice e forse la più importante. E’ un libro emozionante, laddove ci rimanda alla cartina dell’Italia e dell’Europa di ieri, fatta di confini frastagliati, di città libere, di feudi imperiali, di enclavi ritagliate in stati più grandi, di sistemi giurisdizionali concorrenziali, di centinaia di autonomie (nel XIV secolo centoventi entità autonome solo nell’Italia settentrionale). E’ un libro che può esser letto come si gusta un frutto succoso, anche solo per scorrere l’elenco meraviglioso dei nomi assunti nella storia dalle comunità umane. I nomi dei “mille colori della libertà”. Tratta dal sito: Maschi selvatici |
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