Luigi Marco Bassani – ECCO PERCHE’ GLI INTELLETTUALI SONO MARXISTI

Luigi Marco Bassani – ECCO PERCHE’ GLI INTELLETTUALI SONO MARXISTI

Enclave numero 24/2004

In una famosa lettera a Kugelmann del 1868, Marx lanciava il più alto atto di accusa contro la società borghese e il suo sistema economico: “il problema della società borghese è che essa non ha il controllo della produzione”. In una nota pagina del terzo volume del Capitale (per quanto le pagine del terzo volume possono essere note), egli affermava che se per caso i bisogni della popolazione dovessero essere soddisfatti dalla quantità offerta di una determinata merce, questo è appunto un caso, perché il sistema capitalistico non ha alcun meccanismo di controllo della produzione. Il capitalismo non può soddisfare i bisogni umani, ma inviluppandosi nel ciclo denaro-merce-Denaro, produce solo plusvalore, sfruttamento, espropriazione di ore-lavoro, in ultima analisi “alienazione”.

L’alienazione, quella sulla quale si incentra la riflessione del giovane Marx – che è chiaramente tutt’uno con il Marx maturo – è di tre tipi: quella dell’uomo nei confronti di se stesso, nei confronti degli altri, e nei confronti del mondo in cui vive. L’uomo prodotto dal capitale, questa forza cieca che domina il mondo, è un alienato globale: tutto gli è “altro”, a cominciare dal prodotto del proprio lavoro. Le miserie prodotte dal lavoro salariato non sono solo fisiche, ma anche spirituali. E proprio nella mancanza di controllo sulla produzione Marx vedeva il nesso teorico fra una società umana che andava immiserendosi sul piano della mera materialità e al contempo era priva della caratteristica propria degli esseri umani: il dominio sulla natura. Il capitalismo non era una forma di governo, ma di semplice violenza sulla natura perché il motore del processo di produzione, questo capitale senza volto e senz’anima, non sapeva nulla di ciò che stava realizzando. Di altra parte, egli affermava che la borghesia non aveva alcun interesse a conoscere i misteri del proprio modo di produrre, salvo forse nei periodi di crisi. Nella letteratura marxista tutto ciò è rubricato come “anarchia del capitale” e viene spesso presentato quale uno degli atti d’accusa di Marx alla società borghese: una sorta di corollario, che giunge però quasi ad abundatiam e ben distante dalla dottrina del “plusvalore-pluslavoro”.

Ritengo, al contrario, che il cuore della teoria di Marx sia da rinvenire proprio in quell’affermazione a Kugelmann: la società borghese non ha il controllo della produzione. Ovverosia, la riproduzione delle condizioni materiali della sua stessa esistenza sfugge al suo comando. In realtà, è proprio questa profonda convinzione che spinse il pensatore di Treviri a formulare previsioni sul crollo del modo di produzione della società borghese. Essendo cieco il capitale non poteva produrre che un equilibrio instabile e precario. Generandosi, al contrario, nella mente dell’uomo il comunismo, proprio come soluzione cosciente ai guasti generati dalla produzione delle merci per mezzo del lavoro salariato (merce esso stesso), gode di un’autorità imparagonabilmente superiore: quella del disegno razionale.

È in un celeberrimo passo del Capitale che viene chiarita assai bene la superiorità del disegno rispetto a qualunque altro tipo di creazione.

[L]’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. (Il capitale, I, cap.5)

Che cosa vuol dire? Che un prodotto non cosciente non è degno della comunità degli uomini anche se dovesse essere superiore dal punto di vista della riuscita tecnica. Solo il fatto di essere stato scientemente progettato e realizzato imprime il marchio dell’umanità ad un prodotto del lavoro, in particolare a quel “lavoro teorico” che è la costruzione di un modello economico-sociale. La società comunista allora potrà essere il prodotto del peggiore architetto, ma avrà comunque il “marchio dell’umano”, mentre quella capitalistica, anche se dovesse risultare bella come il frutto dell’ape migliore sarebbe comunque ingiustificata agli occhi dell’uomo perché “inconsapevole”.

Ora, tutto ciò sembra cozzare duramente da un lato con la reticenza di Marx a “prescrivere ricette … per l’osteria dell’avvenire”, e dall’altro con l’assunto che il socialismo sarà il risultato della piena maturazione del sistema capitalistico.

Sul primo punto, vale la pena di notare che per essere il marxismo la dottrina che maggiormente esalta il disegno cosciente, sia il suo fondatore che i suoi seguaci ben poco si sono occupati di delineare i contorni di tale progetto (anche quando hanno preso il potere i comunisti hanno sempre ritenuto la costruzione del comunismo una fastidiosissima e oltremodo complicata “necessità storica”, rispetto al loro hobby preferito: la critica della società capitalistica). Mentre Marx nei suoi lavori dedica migliaia di pagine alla critica dell’esistente, solo poche decine sono quelle nelle quali l’argomento è la società comunista, il suo funzionamento e la sua struttura. Anziché costruire un modello di società talmente appetibile e di fronte alla quale l’esistente non sarebbe apparso tollerabile un minuto di più, Marx aveva criticato in modo talmente serrato i sistemi capitalistici, che anche una semplice visione tutt’altro che approfondita e appena abbozzata in formulette puerili divenute popolarissime – da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni – poteva apparire preferibile all’esistente. La creazione progettuale è allora semplicemente l’antitesi al movimento del capitale, non fa quasi parte del “laboratorio Marx”, ma rappresenta il precipitato delle contraddizioni storiche del modo di produzione capitalistico. In altri termini, il punto non è quanto progettano gli uomini e quanto coscientemente, ma semplicemente la rivolta razionalistica di classe alla cecità del capitale.

Il secondo punto tende al fine a confondersi con il primo: come si può conciliare il massimo del disegno della comunità degli esseri umani (il comunismo) con la sua nascita “inevitabile” dalle rovine del vecchio mondo, ossia di una società che non ha il controllo della produzione? Per passare dall’incontrollato al comando, dal non essere all’essere, qualcosa dovrà comunque avvenire a livello della mente degli uomini. Se prima essi si erano lasciati guidare dalla forza cieca del capitale e nel corso della loro storia alla fine prendono in mano il proprio destino, l’atto della volizione appare veramente essenziale.

Il fatto è che l’irrazionalità del capitale crea un soggetto storico e sociale, il proletariato, che sfugge totalmente al dominio borghese. Il capitale è talmente cieco da creare il proprio becchino senza accorgersene. E naturalmente l’antitesi della società borghese è tutto ciò che la borghesia non può essere: in primo luogo cosciente e razionale. Tutta l’analisi marxiana è allora un incubo hegelo-fichtiano nel quale un soggetto ormai inconsapevole, la borghesia, crea il proprio non io cosciente, il proletariato. Per Marx, il capitale e la sua forma di dominio hanno messo in moto le forze della ragione: la vera funzione storica che il capitalismo deve assolvere è allora quella di levatrice della razionalità dell’uomo per creare una comunità di esseri liberi e ricchi. E tale razionalità non è socialmente dispersa, bensì il portato storico di una sola classe, che si è formata nel corso del tempo, ha subito l’espropriazione della ricchezza, ma con ciò ha ottenuto anche un dono: quello della razionalità. La classe operaia, seguendo dappresso il ragionamento di Marx, ha da essere grata ai suoi dominatori, giacché mai schiavi ottennero così tanto dai propri padroni. In fondo essa ha scambiato plusvalore con razionalità, ed è chiaro che il valore d’uso della seconda merce è infinitamente maggiore. La funzione civilizzatrice del capitale è allora duplice: da un lato esso strappa gli individui “all’idiozia della vita di campagna”, e questo vale anche per le masse asiatiche e del “terzo mondo” – quanto avrebbe riso Marx dei suoi seguaci odierni che fanno di tutto per ostacolare lo sviluppo del capitalismo oltre i suoi confini naturali – dall’altro crea una classe che ha il compito di liberare la società tutta dal dominio irrazionale del capitale. Il capitale domina il mondo e per mezzo della produzione, sussume la società e lo Stato. Nel tempo del capitale tutto è da esso condizionato.

Il controllo, il dominio cosciente e la costruzione (in contrapposizione antitetica alla società del capitale) sono state la molla che ha fatto scattare la più grande storia d’amore di tutti i tempi, quella fra gli intellettuali e il comunismo. Tante altre piccole cose possono essere state giarrettiere e tacchi a spillo del marxismo, buone per suscitare un’attrazione di breve durata, ma il matrimonio è stato celebrato ed è durato sul sogno del dominio della natura e per mezzo di esso della società. Il comunismo teorico era la terra promessa per gli intellettuali: solo chi conosce e studia può essere in grado di condurre la società all’abolizione delle classi e quindi ad un governo cosciente della natura. Il proletariato ha certamente ricevuto il dono della razionalità, ma le facoltà vanno coltivate e sviluppate dalle avanguardie.

Fra le classi operaie solo la francese, l’italiana e a tratti quella tedesca, hanno dimostrato una propensione marginale ad utilizzare parole d’ordine comuniste, ma se il proletariato è uno nel mondo il marxismo è una storia a singola cifra percentuale, e per lunghi periodi è storia di decimali. Del proletariato nei Paesi comunisti non vale neanche la pena di parlare. Al contrario la maggioranza degli intellettuali ha ritenuto il marxismo una sorta di aristotelismo del Novecento, tutte le sue categorie “imprescindibili” nell’analisi delle scienze storico-sociali. Un collega americano, che parlando di schiavismo negli Stati del Sud aveva civettato troppo con Marx, alla mia bonaria richiesta di rendere palesi agli studenti i suoi approcci metodologici, mi ha risposto allibito: “ma esiste qualche altro modo di studiare e spiegare la storia?”. Anche oggi, seppure all’osteria dell’avvenire non si preparino più ricette marxiste, il passato deve essere analizzato con le categorie del “genio” di Treviri. Il che francamente appare veramente ridicolo: se Marx ha sbagliato analisi e previsioni sul mondo capitalista che aveva comunque ben studiato, e ha detto qualche bazzecola su quello comunista, proiettare la sua ombra sul universo precapitalista, che egli non conosceva affatto, è una sciocchezza colossale. Ci dimostra solo che, come l’aristotelismo, esso ha una forza di resistenza dottrinaria enorme.

Così, ogni buon libertario è costretto costantemente a ritornare al vecchio problema: “perché gli intellettuali sono socialisti”. Solo che questo deve essere incessantemente riformulato e spezzettato nelle sue varie componenti: sono gli intellettuali diversi antropologicamente dagli altri uomini? Lo sono, lo sono. Perché il socialismo è attraente per un siffatto tipo umano? Esiste il socialismo o soltanto forme più o meno edulcorate di marxismo? Su quest’ultima questione non ho dubbi. Il marxismo non ha goduto del fascino generale del quale già godeva il socialismo, ma ha al contrario conferito prestigio intellettuale ad una dottrina confusa e marginale. Saint-Simon, Owen, Fourier, e tutti gli altri non si recupererebbero che una breve nota in un manuale di storia del pensiero politico dell’Ottocento, ma la fortuna di Marx ha deciso altrimenti. Quindi la vera questione è e rimane: perché gli intellettuali amano la dottrina di Carlo Marx. O meglio ancora, che cosa ha la dottrina di Marx di irresistibile per gli intellettuali tanto da attrarli come le mosche al miele? Va chiarito subito che l’autore del Capitale, e lo dico ai più giovani fra i nostri lettori, è un pensatore di prima grandezza, il frutto più sofisticato dell’incontro fra la filosofia tedesca e l’economia politica classica. Non si possono neanche proporre paragoni fra le analisi marxiane e le sciocchezzuole antimercato che circolano oggigiorno (delle quali Marx riderebbe di gusto). Il suo metodo e stile, poi, quel misto di assunti indimostrati, affermazioni apodittiche, fanatismo dottrinario e sarcasmo sprezzante, lo rendono particolarmente congeniale agli intellettuali.

Come ho suggerito, il “controllo” è la chiave dell’appeal marxista per la futura società: controllo sulla produzione, che vuol dire dominio sulla società e dunque comando e governo sugli altri uomini. In definitiva prendere il potere non è un programma politico di poco conto, soprattutto se questo potere è assoluto e la casta delle persone colte ne disporrà a piacimento.

Oggi viviamo ancora sotto l’eco rifratta della lunga storia d’amore fra gli intellettuali e Marx: solo un’esaltazione uguale e di segno opposto per i prossimi due secoli potrà “mutare lo stato di cose esistenti”. E tuttavia noi abbiamo fra le mani una teoria politica, quella libertaria, che promette alle classi dirigenti solo la fine del loro ruolo di direzione della società. Ciò che auspichiamo è una società senza guida, nella quale le volontà dei milioni di singoli uomini e donne interagiscano liberamente. Di fronte al marxismo e anche alle più blande forme di collettivismo dobbiamo avere la piena consapevolezza di essere poco attraenti, di non avere nulla da offrire. La discussione è appena all’inizio, ma per restare in tema: questi sono i termini del problema: Hic Rhodus, hic salta!

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