Carlo Lottieri, UN LIBERALISMO CHE NON HA PAURA DI ESSERE ANARCHICO

Carlo Lottieri, UN LIBERALISMO CHE NON HA PAURA DI ESSERE ANARCHICO

Il Domenicale, 17 luglio 2004

Secondo una narrazione ormai consolidata, quella libertaria sarebbe una teoria eminentemente americana e, oltre a ciò, assai recente. Talora si cerca di fissare anche una data d’origine di tale prospettiva politico-culturale, individuando nel 1969 ed in un’animata assemblea della YAF (l’associazione giovanile dei repubblicani) il momento in cui ebbe origine un movimento libertario in senso proprio.

Tutto ciò non è interamente falso, ma certo rischia di restituire un’immagine deformata di questa tradizione di pensiero che tanto strettamente connette la proprietà privata e la libertà individuale, la critica dello statalismo e la rivendicazione dei diritti della società civile (a partire, naturalmente, dall’uomo singolo). D’altra parte, proprio chi come Murray N. Rothbard più ha fatto per delineare in forma compiuta tale concezione politica ne ha spesso evocato le radici aristotelico-tomiste: guardando anche al pensiero di tradizione cattolica ben più che alle correnti protestanti o laiche dell’Occidente (e rivalutando, in particolare, la Seconda Scolastica iberica), enfatizzando il ruolo del realismo filosofico e criticando ogni tendenza relativista e scettica, rivendicando come taluni teorici europei dell’età medievale e post-medievale (si pensi, ad esempio, ai ‘monarcomachi’) siano da annoverare tra i lontani progenitori di questa concezione.

Per cogliere tutto ciò basta leggere uno degli autori più amati dai libertari, Étienne de la Boétie, il cui Discours sur la servitude volontaire è stato recentemente ripubblicato da Liberilibri con una prefazione di Rothbard stesso. Ed il testo del giovane amico di Montaigne mostra come fin dagli inizi del Cinquecento ci fosse in Occidente un pensiero determinato ad osservare, vivisezionare e condannare il monopolio statale della violenza: l’arbitrario dominio di quei pochi che pretendono di disporre della vita e della libertà altrui. Ricordare La Boétie, però, significa non solo richiamare una tra le più remote anticipazioni di questa tradizione rigorosamente liberale, ma enfatizzare al tempo stesso il ruolo che la cultura europea ha giocato nel delineare questo pensiero politico.

L’importanza di questa eredità è testimoniata pure dal recente volume Società senza Stato. I fondatori del pensiero libertario, curato per l’Istituto Bruno Leoni da Nicola Iannello e pubblicato congiuntamente da Facco e Rubbettino. Fissando la propria attenzione sulla questione del ‘monopolio’ statale e sul libertarismo quale ipotesi di un ordine policentrico, Iannello focalizza la propria attenzione sul pensiero otto-novecentesco, introducendo il lettore a nove testi ormai classici di cui solo cinque sono americani e che – nel loro insieme – delineano uno straordinario percorso che valica i consueti confini di un libertarianism tutto americano e che sa unire rigore intellettuale, forza persuasiva, alta qualità letteraria.

Con tale antologia, tra l’altro, Iannello ci ha dato un volume destinato a diventare un’opera di riferimento per quanti sono interessati al liberalismo. E, molto opportunamente, egli ha scelto di raggruppare in tre sezioni distinte gli autori antologizzati, mostrando come i liberali europei (Molinari, Spencer, Herbert) inaugurino una prospettiva del tutto alternativa al monopolio della violenza e come tale pensiero trovi una profonda consonanza con le tesi degli anarchici americani di tradizione jeffersoniana (Spooner, Tucker, Bourne), per poi conoscere una compiuta sintesi grazie ai libertari (Rothbard, Childs, Hoppe).

È significativo, in questo senso, come tutto qui prenda inizio dalla riflessione pacata di un economista franco-belga d’evidente origine italiana, Gustave de Molinari, il quale nel 1849 si chiede per quale ragione quanti come lui credono nel primato della concorrenza sul monopolio debbano poi abbandonare tale convinzione di fronte al problema della produzione della sicurezza.

Nell’Onzième soirée de la rue Saint-Lazare, Molinari mette in scena il dialogo tra un intellettuale conservatore che difende il monarca tradizionale, uno socialista (che al vecchio re vuole sostituire un sovrano ‘collettivo’) ed un economista, che esprime di tutta evidenza le tesi liberali e difende le ragioni della libertà di governo: del diritto, cioè, a scegliere volontariamente a quale agenzia protettiva rivolgersi. Il tutto entro un mercato di governi che competano per servirci al meglio.

Come si vede, la razionalità propria dell’economista – fin dall’inizio – appare fondamentale a delineare i tratti essenziali del pensiero più antistatalista, ma è bene ricordare che si tratta di modo di guardare all’economia che continuamente sottintende l’idea che gli individui hanno diritti individuali naturali che nessuno, governo o privato, può ignorare.

In autori come Lysander Spooner e Benjamin Tucker, ma anche nello stesso Herbert Spencer, tutto ciò è molto chiaro. E certamente ha ragione Iannello quando rileva che in Auberon Herbert “l’unico uso legittimo della forza nelle relazioni umane è quello difensivo contro quello aggressivo”. Ben più che su basi ‘economiche’, quindi, questo liberalismo coerente poggia su solide fondamenta ‘giuridiche’, dato che esso può essere fatto proprio solo da chi è disposto a difendere fino in fondo le ragioni della libertà individuale, rifiutandosi di accettare che essa possa essere sacrificata per questo o quel motivo.

Questo permette di comprendere come l’aspirazione di Molinari a superare l’obbligo politico in nome della concorrenza imprenditoriale apra la strada anche ad una critica spietata dell’imperialismo e della guerra, che per loro natura negano i diritti dei singoli e le libertà fondamentali. In tal senso è assai significativo quanto scrive Randoph Bourne, che evidenzia come la guerra sia “la salute dello Stato”, il quale si alimenta grazie ai conflitti e pretende d’imporsi come nuova divinità secolare, periodicamente pretendendo sacrifici umani e tributi di sangue in conflitti per lo più ingiustificati e ingiustificabili. Lo Stato nasce dalla guerra (dalla violenza di un piccolo gruppo aggressivo prepotente) e s’espande indefinitamente grazie al potere che riesce ad accumulare nelle fasi di conflitto.

La sfida libertaria allo Stato, allora, è l’ostinata fedeltà alle ragioni del diritto (e della pace): è l’appassionata difesa di quanto c’è di più nobile nell’Occidente, nelle sue radici classiche e cristiane, nella sua esaltazione del valore infinito dell’individuo. E se non manca di trarre beneficio pure dalla teorizzazione dell’assioma di non aggressione formulato da un’atea militante come Ayn Rand (che Roy Childs affettuosamente contesta nel suo scritto), pure è difficile non vedere quanto di vi sia di ‘religioso’ ed evangelico nella fedeltà liberale alla dignità assoluta dell’uomo: che nessuno e per alcun motivo può aggredire.

Come Iannello ripetutamente evidenzia nella sua corposa introduzione, ciò che in effetti vi è di più affascinante nel pensiero di questi fondatori del pensiero libertario – siano essi europei o americani – è il loro rigore morale (la pretesa di non usare di fronte ai politici un metro diverso rispetto a quello utilizzato per giudicare gli uomini comuni) e, al tempo stesso, lo spietato realismo con cui essi s’incaricano di demitizzare lo Stato.

Per i liberali à la Spencer così come per i libertari à la Rothbard, d’altra parte, gli uomini di Stato sono solo “una banda di criminali di professione”. Questa espressione di Albert Jay Nock (esponente di primissimo piano della Old Right) non deve essere presa unicamente in senso polemico. Non è affatto un’invettiva o una provocazione. Basta leggere, a tale proposito, il testo di Spooner, che si rivolge al povero Bayard per spiegargli come egli non possa pretendere di essere – al tempo stesso – un politico ed una persona onesta, dato che in quanto legislatore egli costantemente aggredisce uomini innocenti da cui esige obbedienza, denaro e fedeltà.

Quello al centro dello studio di Iannello, allora, è davvero “un liberalismo che non ha timore a pronunciare la parola anarchia”. Ma è anche il pensiero formulato da quegli studiosi, che “rifiutando l’appiattimento della filosofia politica sulla scienza dello Stato” sempre più “restituiscono alla riflessione teorica il respiro della grande avventura intellettuale”, sapendo connettere la ricerca intellettuale più spregiudicata e le esigenze della società contemporanea, bisogna di paradigmi interpretativi nuovi e di modelli adeguati ai tempi.

Quello libertario, in effetti, è un pensiero politico particolarmente attuale nell’era della globalizzazione: in un’età durante la quale capitali ed imprese scelgono dove collocarsi, mettendo in competizione tra loro i circa duecento governi della scena internazionale. Nel momento in cui si assiste al rapido migrare di somme ingenti di denaro, che lasciano gli ‘inferni’ fiscali per trasferirsi nei ‘paradisi’ fiscali, appare chiaro come la libertà sia oggi garantita ben più ai ricchi che ai poveri: ben più alle fatiche passate (capitale) che a quelle presenti (lavoro). Ma la richiesta dei libertari, appunti, è che i monopoli nazionali mollino la presa e che ognuno di noi, ricco o povero, possa disporre autonomamente di sé e della propria vita.

Perché questa nuovo modo di convivere possa emergere, ad ogni modo, è indispensabile che i tabù della modernità vengano demitizzati e che la vita associata s’organizzi attorno ad altre regole, di carattere più universale. Se la statualità ha conosciuto in questi ultimi cinque secoli un successo tanto pervasivo (e dalle conseguenze così drammatiche), è chiaro che ciò è stato reso possibile dall’affermarsi di concezioni morali assai diverse rispetto a quella dei libertari: da Machiavelli a Botero, da Hobbes a Rousseau, da Hegel a Marx. Nel corso di questa età, la filosofia politica si è progressivamente orientata verso la celebrazione del Principe e della sua particolare virtù (quell’attitudine al crimine e al cinismo che ha reso tra loro tanto simili molti statisti dell’età moderna), divenendo strumento fondamentale al rafforzamento del potere, al trionfo della sovranità, all’inaugurazione di una mistica del ‘collettivo’ che ha trovato nel Romanticismo politico le sue espressioni più compiute e i semi di una violenza disumana.

Nonostante tutto ciò, grazie all’azione solitaria di questi ‘dissidenti del pensiero’ che Iannello qui antologizza siamo tutti costretti ad ammettere che esiste anche una prospettiva diversa, certamente minoritaria ma pure in condizione di modificare il quadro generale entro cui collochiamo la nostra riflessione sulle istituzioni. Come evidenzia il rigore spietato delle analisi di Rothbard e di Hans-Hermann Hoppe, che offrono la riflessione più matura su come istituzioni private possano davvero prendere il posto del monopolio pubblico, grazie ai libertari lo Stato è chiamato a giustificarsi. Esso perde la propria ‘aura’: non è affatto eterno (poiché ha avuto un’origine), e certamente non è neppure perpetuo, a dispetto delle pretese di Jean Bodin. Non è necessario e neppure auspicabile. Questa istituzione che prima o poi uscirà di scena e lascerà il posto ad altre forme di organizzazione sociale, è quindi oggi chiamata a dare argomenti che possano giustificare i morti di cui si è resa responsabile, le menzogne che ha contribuito a propagare, la scia di sofferenze che ha lasciato dietro di sé.

Anche se può sembrare il frutto elitario e raffinato di un piccolo gruppo di studiosi e di una cerchia ristretta di liberali ‘estremisti’, il volume di Iannello è quindi un segno dei tempi, e un potente invito a liberarsi di tanti dogmi.

Non bisogna mai scordare che solo vent’anni fa la maggior parte degli intellettuali confidava nel successo del proletariato quale conseguenza ineluttabile della dinamica intima al materialismo dialettico. Oggi le cose sono cambiate, eppure la stragrande maggioranza degli intellettuali continua – e con la medesima determinazione – a ritenere sacri ed inviolabili la sovranità del Parlamento, il modello ottocentesco del Rechtsstaat e perfino i cosiddetti ‘diritti politici’. Ma davvero nulla ci vieta di sperare che negli anni a venire anche queste ultime superstizioni possano essere abbandonate e se, come rileva Iannello, “l’universo di riferimento dei libertari è toto coelo diverso da quello dei neoconservatives oggi di moda”, la speranza è che presto vengano al pettine i guasti delle politiche che hanno dominato gli ultimi anni e si torni a riscoprire l’intima connessione tra diritto e libero scambio, tra pace e tutela della proprietà.

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