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PASCAL SALIN – La Tirannia Fiscale

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Una denuncia delle scandalose rapine dello Stato-padrone

Edizioni: Liberilibri   Anno: 1996   pag. 289

Esaurito

Descrizione

La moderna democrazia nasce dall’esigenza di limitare i poteri di chi governa, non ultimo quello di imporre tasse. Laddove – come è accaduto in molti paesi e in special modo in Italia negli ultimi trent’anni – la potestà tributaria è usata come strumento per depredare alcuni cittadini a favore di altri, e ha come unico limite quello della voracità delle corporazioni sul cui consenso si fonda il potere, lì la democrazia si riduce a farsa della democrazia.
Accade allora che il “Principe”, attraverso un accurato lavaggio del cervello, riesca a persuadere la massa dei cittadini che alcune scelte tributarie, come ad esempio progressività delle imposte, tassazione dell’eredità, ipertassazione dei patrimoni, armonizzazione fiscale europea e così via, siano dogmi indiscutibili e immodificabili. Dogmi che vengono spacciati per verità scientifiche e nobilitati di un’aura di alta eticità. Ma per fortuna vi sono ancora eresiarchi impenitenti, come Pascal Salin, che con la lama del libero pensiero smascherano queste “pie frodi” elaborate per legittimare le scandalose rapine dello Stato padrone-predone.

1 recensione per PASCAL SALIN – La Tirannia Fiscale

  1. Carlo Zucchi

    La moderna democrazia nasce dall’esigenza di limitare i poteri di chi governa, non ultimo quello di imporre tasse. Nonostante ciò, oggi abbiamo esempi di voracità fiscale ovunque nel mondo occidentale, soprattutto in Europa. Il perché è presto detto: la potestà tributaria viene usata come strumento per depredare alcuni cittadini a favore di altri e mantenere una classe politica che trova più semplice aumentare l’imposizione fiscale che tagliare il suo budget di spesa.

    Naturalmente gli uomini politici ci dicono che senza la spesa “sociale” le vecchiette morirebbero e i poveri e gli ammalati giacerebbero morenti agli angoli delle strade. In realtà, a giacere, non dico morenti, ma insoddisfatti sì, sarebbero proprio quegli uomini politici che, con la scusa della “socialità” della spesa, ricavano, dal denaro estorto con l’imposizione, le risorse per poter comprare il consenso di un numero di elettori sufficiente a farli rieleggere.

    Accade, quindi, che attraverso un accurato lavaggio del cervello, il “principe” riesca a persuadere i propri cittadini che alcune scelte tributarie, come la progressività delle imposte, la tassazione dell’eredità, l’ipertassazione dei patrimoni, l’armonizzazione fiscale europea (non bastavano le rapine di stato, ora ci sono quelle continentali!), ecc. siano dogmi indiscutibili e immodificabili. Dogmi, non soltanto spacciati per verità scientifiche, ma rivestiti di un’aura di eticità talmente alta che chiunque osi contestarli viene additato al pubblico ludibrio.

    Quella fiscale, non è solo una mera questione di bassa bottega, come vorrebbero farci credere gli intellettuali alla corte dei vari “principi”, ma è una questione di libertà. Se, invece di fermarci alle aliquote fiscali, andassimo anche a vedere i rapporti spesa pubblica/PIL, scopriremmo che in ogni paese occidentale presunto libero questo rapporto è superiore al 40%, ed in particolare nei paesi dell’Europa Continentale, “ad alto contenuto welfaristico”, questo rapporto va oltre il 50%. Ciò significa che oltre la metà delle risorse prodotte in un paese (come nel caso dell’Italia) viene spesa sulla base di decisioni prese dal Leviatano statale, mentre il cittadino si trova ad essere trattato come un bambino a cui è consentito sì e no decidere…quali caramelle comprare.

    È comunque ormai assodato come nei paesi in cui la pressione fiscale si è via via inasprita (come Francia e Italia) la crescita sia debole, la disoccupazione in aumento e i deficit di bilancio non riescano a diminuire. Al contrario, paesi come Stati Uniti e Inghilterra, che negli anni ’80 hanno intrapreso riforme fiscali tese ad abbassare le aliquote, hanno beneficiato di tassi di crescita economica e occupazionale notevoli. E senza fermarci a questi due esempi, in Austria, una riduzione di circa il 20% del tasso marginale dell’imposta sui redditi decisa nel 1988, ha portato ad un rialzo del 65% del gettito, mentre nel 1984, in Nuova Zelanda, dove un governo laburista ha portato in pochi anni l’aliquota più alta dell’imposta sul reddito dal 60% al 24%, la crescita è aumentata, la disoccupazione diminuita e i bilancio pubblico è in attivo.

    Altro aspetto ancor più importante, è l’esistenza di una relazione inversa tra fiscalità e libertà personale; relazione inversa tanto più pericolosa in quanto scarsamente compresa. Per dirla con Robert Nozick: “La tassazione del reddito da lavoro configura una sorta di lavoro forzato”. Se lo stato mi porta via l’equivalente del reddito di un certo numero di ore di lavoro, è come se mi costringesse a lavorare gratis per quel numero di ore. Il fatto che la fiscalità abbia una forma monetaria non tragga in inganno: per poterci procurare il denaro necessario da versare all’erario bisogna lavorare, e quando “compiamo il nostro dovere civico” è come se versassimo al fisco il numero di giornate necessarie per farci guadagnare i quattrini in questione.

    Se Marx, che chiamava (erroneamente) sfruttamento la differenza tra il valore di un dato lavoro e il compenso corrisposto al lavoratore per quel lavoro, fosse stato liberale, avrebbe chiamato sfruttamento (in questo caso giustamente) la differenza tra il reddito prodotto dal lavoratore e la sua retribuzione al netto delle imposte. Invece, oggi, in nome della ragion democratica, gli intellettuali del principe” dicono che l’ammontare del prelievo fiscale è sempre giusto, purchè stabilito da una maggioranza “democraticamente eletta”. Ma per fortuna vi sono ancora “eresiarchi impenitenti” come Pascal Salin (e Aldo Canovari che lo pubblica!), che con la lama del libero pensiero smascherano queste “pie frodi” elaborate per legittimare le scandalose rapine dello Stato padrone-predone.

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