Il capitalismo distrugge l’ambiente naturale? La parola all’accusa e alla difesa

Il capitalismo distrugge l’ambiente naturale? La parola all’accusa e alla difesa

L’ACCUSA

 

Distruggendo la natura, il capitalismo mina le sue stesse condizioni di sopravvivenza. La crisi ecologica mette quindi in luce le contraddizioni interna al sistema capitalistico

Da: James O’Connor, L’ecomarxismo, Datanews, Roma, 1989, ISBN 88-7981-081-2

[Marx] era convinto che l’agricoltura e la silvicoltura capitalistica recano danno alla natura, così come lo sfruttamento capitalistico danneggia la forza lavoro umana. In conclusione, Marx era convinto ad esempio che l’agricoltura capitalistica danneggia la qualità del suolo. Gli era altrettanto chiaro che i cattivi raccolti prendono la forma di crisi economica. Tuttavia – e nonostante abbia affermato chiaramente che un’agricoltura razionale è incompatibile con il capitalismo – non ha mai preso in considerazione la possibilità che sistemi agricoli ecologicamente distruttivi possano far aumentare il costo degli elementi del capitale, il che a sua volta può dar luogo a una crisi economica di tipo particolare, e cioè da sottoproduzione di capitale. In altri termini, Marx non è mai arrivato a sostenere in modo chiaro che le “barriere naturali” possono essere barriere prodotte dal capitalismo stesso, e sono pertanto una “seconda” natura capitalizzata. In altre parole, che vi può essere una contraddizione del capitalismo che porta ad una teoria ecologica della crisi e della trasformazione sociale. (pp. 11-12)

Sono infatti ben noti gli esempi di accumulazione capitalistica che danneggia o distrugge le condizioni del capitale, minacciando così i profitti e le capacità del capitale di produrre e accumulare altro capitale. Le piogge acide distruggono le foreste, i laghi, gli edifici, e anche i profitti. La salinizzazione delle acque di superficie, i rifiuti tossici, l’erosione del suolo, etc., danneggiano sia la natura sia gli utili. Il circolo vizioso dei pesticidi distrugge insieme i profitti e la natura. Il capitale urbano che opera nella spirale del rinnovamento delle città danneggia le sue stesse condizioni, e quindi i profitti, per via dei costi di congestione, dell’aumento degli affitti, ecc. (pp. 30-31)

La combinazione di capitali colpiti da crisi, bisognosi di esternalizzare i loro costi; l’uso sfrenato della tecnologia e della natura per realizzare il valore nella sfera della circolazione, presto o tardi debbono per forza portare ad una “ribellione della natura”, e cioè a possenti movimenti sociali che rivendichino la fine dello sfruttamento ecologico. Specialmente in tempi di crisi, come quelli attuali, e indipendentemente dalle cause della crisi, il capitale tenta di ridurre il tempo di produzione e circolazione, il che normalmente provoca l’effetto di peggiorare la situazione dell’ambiente, della salute, e della sicurezza sul lavoro. La ristrutturazione del capitale può dunque peggiorare, non risolvere i problemi ecologici. (p. 42)

Come lo sfruttamento del lavoro (che è il fondamento della teoria marxista della crisi, in termini tradizionali) ha trovato sulla sua strada un sindacalismo operaio, che in dati momenti e luoghi si è presentato come una vera e propria barriera sociale per il capitale, così lo sfruttamento della natura (incluso quello della biologia umana) trova ora sulla sua strada un movimento ambientalista (per l’ecologia, la sanità, la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro, il movimento delle donne in difesa della politica del corpo, ecc.) che può anch’esso porsi come una barriera sociale per il capitale. (p. 39)

Una spiegazione eco-marxista del capitalismo come sistema dominato da crisi si incentra pertanto sul modo in cui il potere combinato dei rapporti capitalistici e delle forze capitalistiche di produzione si autodistruggono, ipotecando o distruggendo le loro stesse condizioni (definite nella loro dimensione sia materiale che sociale), invece di riprodurle. (p. 29)

Ciò significa che le minacce del capitalismo alla riproduzione delle condizioni di produzione non minacciano solo i profitti e l’accumulazione, ma anche la vitalità dell’ambiente sociale e “naturale”, inteso come strumento di vita. (p. 45)

 

 

La crisi ecologica è determinata da un sistema fondato sull’egoismo individuale e la ricerca del profitto.

Da: Giorgio Nebbia, Brevi pensieri sull’ecologia, la proprietà privata e la sostenibilità, Federalismo & Società, IV, 1-2, 1997, ISBN 771124999006

I disastri ecologici, le cause di insostenibilità del pianeta Terra derivano dal fatto che alcuni individui o popoli o comunità, nel nome del profitto privato e individuale, si appropriano e sfruttano eccessivamente i beni collettivi che sono di tutti: la terra, le acque, l’aria, i boschi, i pascoli. Soltanto alcune regole, imposte da alcuni con la violenza, col potere, con le guerre, hanno stabilito che ci sia un “padrone” delle acque, dei minerali, delle foreste, dei pascoli, che sono invece beni collettivi, “commons”, appunto.

Nel momento in cui gli interessi individuali, l’avidità, la ricerca del profitto privato, nel nome della libertà, cercano di appropriarsi di una parte di quei beni collettivi, che sono anche “di altri”, tali beni in breve tempo vengono sporcati o distrutti o si esauriscono, e vengono meno all’avido speculatore –  e questo non sarebbe un gran male, ma solo una giusta punizione per la sua avidità – ma purtroppo non sono più disponibili neanche per tutti gli altri che da tali beni non hanno tratto alcun vantaggio, benchè essi fossero in parte anche “loro”. Ecco perché è insostenibile una società o uno sviluppo che, nel soddisfare i bisogni dei terrestri – o di una parte dei terrestri – dell’attuale generazione lascia alle generazioni future terre impoverite, meno fertili, miniere e pozzi esauriti, acque contaminate: tale situazione di insostenibilità non è dovuta alla povertà della natura, di cui comunque vanno riconosciuti e ricordati i limiti fisici, ma dal conflitto fra proprietà e interessi privati e beni collettivi.

L’auspicio dell’avvento di una società sostenibile, in grado di lasciare alle generazioni future dei beni naturali e materiali in grado di soddisfare i loro futuri bisogni, è ipocrita se non si mettono in discussione i principi della proprietà privata, se non si ha il coraggio di porre alla proprietà privata dei vincoli nel nome degli interessi degli altri. (pp. 328-329)

Se si vuole passare dalle ipocrite dichiarazioni di principio a concrete azioni ecologiche e sociali sostenibili, bisogna mettere in discussione molti principi fondamentali dell’economia e del diritto e riconoscere che, come è colpevole un privato quando ruba ad un altro privato mettendogli le mani in tasca, così è un delitto che un privato, per i propri comodi, per non spendere soldi nei depuratori, per guadagnare di più, inquini, avveleni, sfrutti eccessivamente dei beni che non sono suoi, che sono di tutta la collettività. Il cammino è lungo perché le regole del mondo dei saggi e dei sapienti vanno proprio nella direzione contraria alla sostenibilità, sono ispirate alla logica del pastore che distrugge il pascolo per avere a breve termine un maggior profitto individuale. Ma, alla breve o alla lunga, queste regole si ritorcono contro gli stessi che le hanno formulate e dovranno pure, un giorno, essere cambiate. (p. 330)

 

 

Il capitalismo minaccia la biodiversità ed è responsabile dell’estinzione di numerose specie animali

Da: Nathan Georgescu-Roegen, Energia e miti economici, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, ISBN 88-339-1062-8

Il meccanismo del mercato non è mai riuscito a far fronte ai problemi bioeconomici; ogni volta che una comunità si è dovuta preoccupare della difesa delle risorse – foreste, pesci, o selvaggina – o dell’ambiente salubre ha dovuto introdurre restrizioni quantitative. Una prova è che il governo degli Stati Uniti non ha applicato il principio “chi inquina paga” per ridurre l’inquinamento atmosferico delle automobili; e se le balene sono minacciate dell’estinzione è solo perché i prezzi di mercato sono proprio adeguati a permettere la caccia senza limiti. (p. 29)

 

La soluzione dei problemi ambientali impone l’estensione dell’intervento dello Stato e una penetrante regolamentazione pubblica delle attività private

Da: Robert Heilbroner, After Communism, The New Yorker, 10 settembre 1990

Se c’è un problema che ogni sistema socio-economico dovrà affrontare nei prossimi decenni, sarà proprio quello di come conciliare la nostra economia con le esigenze dell’ambiente. Di come operare, insomma, per assicurarsi che il processo vitale di approvvigionamento delle risorse non contamini lo strato verde-blu dal quale dipende la vita stessa. Questo bisogno imperativo interesserà tutte le formazioni sociali, ma nessuna così profondamente come il capitalismo.

É forse possibile che alcune delle istituzioni del capitalismo, come i mercati, la separazione tra diritto pubblico e diritto privato, e la proprietà privata di alcuni mezzi di produzione, possano essere adattati alla nuova situazione di vigilanza ecologica. Ma, se è così, dovranno essere monitorate, regolate e limitate in un modo tale che sarebbe difficile chiamare capitalismo l’ordine sociale risultante.

 

Per risolvere i problemi ambientali bisogna attuare una decisa centralizzazione del potere politico, anche a livello globale.

Da: Piero Bevilacqua, “L’evoluzione dell’economista”, in Carla Ravaioli (a cura di), Lettera aperta agli economisti, Manifestolibri, Roma, 2001, ISBN 88-7285-257-9

Occorre inoltre aggiungere che in maniera sempre più percepibile la macchina economia appare gravata da nuove responsabilità. La caduta dell’illusione della falsa infinità della natura, la consapevolezza, ormai crescentemente diffusa, che le risorse del pianeta sono limitate ed esauribili, grava i produttori – vale a dire i maggiori consumatori di risorse e materie prime – di compiti e impegni assolutamente imprevisti. Quanto più le risorse esistenti diventano scarse, minacciate di estinzione, tanto più esse sono destinate ad apparire universali, caricate di valori e di funzioni collettive. E parallelamente gli imprenditori, i proprietari, chiunque utilizzi il mondo fisico per attività produttive, sempre meno apparirà nella veste di un operatore privato e sempre più, al contrario – per evocare un’immagine di Marx – come un usufruttuario di beni che appartengono a tutti. A maggior ragione oggi, in una fase in cui si è sempre più consapevoli del fatto che la creazione di ricchezza privata, da parte dei singoli produttori, quasi mai si verifica senza alterazioni dell’ambiente circostante e quindi senza danni imposti al resto della collettività. (pp. 142-143)

I fenomeni dell’economia e dell’ambiente sono sempre più globali: reclamerebbero, per la loro gestione, un governo planetario. (p. 143)

É in atto – ed è sotto gli occhi di tutti – uno scatenamento delle forze produttive capitalistiche che ormai ambiscono a creare una società di mercato, vale a dire una forma di organizzazione sociale nella quale le regole di mercato diventino le leggi che regolano l’intera vita associata e i rapporti tra gli individui. Una società di imprese e consumatori. É su tale terreno che la politica, vale a dire lo sforzo di un governo dell’economia, rischia di soccombere se non guadagnerà velocemente una posizione di comando a livello mondiale. Ogni singolo paese si sentirà minacciato dalla concorrenza degli altri fino a che un’autorità unica globale non imporrà a tutti i limiti che sono le condizioni della salvezza generale del pianeta. Senza di essa tutti, governi e imprese, avranno un grande alibi da contrapporre alle pur formidabili ragioni degli ambientalisti e degli economisti pensanti, e la corsa continuerà sempre più sfrenata. (pp. 144-145)

Come si vede, di fronte a giganteschi problemi si rendono necessarie gigantesche soluzioni. I summit dell’ONU sono certamente inadeguati alla bisogna: ma la salute del pianeta è ormai, in diversa misura, dentro l’agenda dei governi di tutto il mondo e un ministero globale dell’ambiente diventa oggi a portata di mano più di quanto sia mai stato in passato. (p. 145)

 

LA DIFESA

 

L’inquinamento è il risultato inevitabile della collettivizzazione e dell’assenza della proprietà privata.

Da: Carlo Lottieri-Guglielmo Piombini, Privatizziamo il chiaro di luna! Le ragioni dell’ecologia di mercato, Leonardo Facco Editore, Treviglio (BG), 1996.

L’inquinamento, va detto senza esitazioni, è sempre e ovunque un fenomeno legato non al capitalismo, ma alla sua assenza; non alla libertà d’impresa, ma al mancato funzionamento di un mercato basato sui diritti di proprietà. Questo ragionamento parte dalla constatazione elementare, ma spesso trascurata, che ad essere inquinate sono solitamente le risorse pubbliche, quali l’atmosfera, i mari, i laghi, i fiumi, le spiagge, le foreste: quelle cioè prive di un proprietario. Tutti questi beni si caratterizzano, dal punto di vista giuridico, per l’assenza di diritti privati di proprietà su di essi e per l’appartenenza alla collettività nel suo complesso… Il punto cruciale è, come già aveva capito San Tommaso riprendendo Aristotele, che ciò che è in comune a più individui riceve il minimo di attenzioni, in quanto “ciascuno è più sollecito nel prodigarsi a vantaggio di ciò che appartiene a lui esclusivamente piuttosto che per ciò che appartiene a tutti o a più persone: ognuno, per sfuggire alla fatica, tende a lasciare agli altri quanto spetta al bene comune…Infatti vediamo che tra coloro che possiedono qualche cosa in comune, spesso nascono contese”. Gli individui, agendo razionalmente, tendono a sovraconsumare le risorse collettive senza alcun riguardo per le conseguenze future, e a trattarle come se fossero gratuite o quasi. Si tratta di un fenomeno ben noto alla scienza economica, confermato dalla comune esperienza: le medesime persone che, quotidianamente, sporcano le strade imbrattano i muri, o gettano rifiuti sulle spiagge, in casa propria non tengono e non tollerano questi comportamenti…E’ questa la ragione per cui i beni privati vengono protetti, curati, migliorati, ed incrementati nel loro valore, mentre quelli pubblici tendono facilmente a trasformarsi in proprietà di nessuno.

É però singolare che, pur manifestandosi il degrado ambientale quasi esclusivamente nei settori dove il diritto pubblico prevale sul diritto privato, si continui così ciecamente a credere che i funzionari statali siano in grado di assolvere i compiti di conservazione della natura meglio dei proprietari privati. Una conoscenza più approfondita dell’animo umano e dei suoi moventi porterebbe però a conclusioni ben differenti; anche grazie agli studi della Public Choice, la scuola di pensiero che esamina la politica con gli strumenti dell’economia, possiamo comprendere con maggiore cognizione di causa le dinamiche decisionali interne ai corpi burocratici. Ne risulta che, il più delle volte, lo stesso interesse personale che spinge il proprietario privato a valorizzare il proprio bene porta l’uomo politico o il funzionario governativo a disinteressarsene. Le decisioni politico-burocratiche tendono infatti ad orientarsi non tanto verso l’interesse pubblico, come le poco credibili teorie stataliste vorrebbero far credere, quanto a soddisfare le richieste dei gruppi di pressione più influenti, capaci di ricambiare con voti e appoggi. Non c’è nessuna certezza che dall’azione combinata delle spinte e controspinte politiche scaturiscano risultati soddisfacenti, ad esempio, dal punto di vista della lotta all’inquinamento o della tutela paesaggistica; l’esperienza dimostra piuttosto che le regolamentazioni poste a difesa dei beni pubblici sono quasi sempre inefficaci, inapplicabili, o inapplicate, e i controlli dall’alto del tutto illusori. (pp. 10-11)

Tecnicamente parlando, per “inquinamento” si intende l’atto con cui una persona (o un’impresa) rimuove dalla propria proprietà qualcosa di indesiderabile, dirottandola sulla proprietà altrui senza il consenso del titolare. Se si accoglie questa definizione bisogna logicamente ammettere che l’inquinamento, contrariamente a quanto generalmente si pensi, è inconcepibile in una economia di mercato pura. Il fondamento morale e giuridico dell’ordinamento liberale che sta alla base dell’economia capitalista è rappresentato infatti dal principio giusnaturalistico di non aggressione, il quale sancisce l’assoluta inviolabilità del diritto di proprietà che ogni individuo vanta sul proprio corpo, sui frutti del proprio lavoro, e su tutti i beni legittimamente acquistati mediante uno scambio volontario (contratto, dono, eredità, ecc.). Il libero mercato, in quanto concatenazione di scambi volontari tra parti consenzienti, non ammette la coartazione della volontà dell’individuo, e l’unica funzione del governo dev’essere quella di proteggere le persone e le proprietà dalle aggressioni esterne. Un sistema che giustifica, in nome dell’ “interesse pubblico” o di qualsiasi altra cosa, il sacrificio dei diritti individuali non può quindi essere considerato nè liberale nè liberista. Ora, cos’è l’inquinamento se non un attacco frontale effettuato ai diritti altrui senza il consenso del legittimo proprietario?

La ragion d’essere di un ordinamento giuridico liberale è quella di impedire siffatte aggressioni, ragion per cui parlare di “inquinamento provocato dal mercato” è una contraddizione in termini. L’esistenza di beni inquinati costituisce, al contrario, la prova che i fondamenti giuridici del capitalismo sono stati violati, che il principio di non invasione non è stato fatto rispettare, e che i diritti individuali sulla propria persona e sulla propria proprietà non sono stati tutelati. (pp. 13-14)

 

 

Proprio perché mancava la proprietà privata, i paesi comunisti hanno conosciuto una devastazione ambientale enormemente superiore a quella delle economie miste dei paesi occidentali

Da: Carlo Lottieri-Guglielmo Piombini, Privatizziamo il chiaro di luna! Le ragioni dell’ecologia di mercato, Leonardo Facco Editore, Treviglio (BG), 1996.

L’intervento statale, facendo scomparire gli incentivi individuali, rischia spesso di rivelarsi controproducente. Il livello di inquinamento dei paesi a economia socialista, nettamente superiore a quello dei paesi a economia mista, si spiega non con la considerazione che i governanti comunisti fossero meno solleciti di quelli occidentali a proteggere l’ambiente, ma col fatto che là vi era una maggiore estensione della proprietà pubblica e del controllo politico delle risorse, e di conseguenza maggiori erano l’incuria e l’abbandono da parte di tutti i membri della società.

I dati sui disastri ambientali avvenuti nei paesi comunisti sono sconvolgenti, tanto che alcuni studiosi hanno parlato di vero e proprio “ecocidio”. Nell’ex Unione Sovietica i “brillanti” pianificatori dell’economia hanno deviato, circa 30 anni fa, i due immissari del lago d’Aral per scopi d’irrigazione agricola (si noti come l’acqua, in quanto “common”, sia stata usata come fosse priva di prezzo). Da allora il lago ha visto ridursi del 50% la propria estensione; le coste si sono allontanate di 120 chilometri, ma dove ancora esiste il mare l’acqua è diventata quattro volte più salata, uccidendo tutta la flora e la fauna presente; il vecchio fondale si è tramutato in un deserto di sale e pesticidi, spazzati dal vento gettati addosso alle coltivazioni e alle popolazioni vicine: ciò ha causato nella zona circostante la distruzione dell’agricoltura e della pesca, oltre che il più alto tasso di mortalità infantile di tutta l’ex Urss. Per avere un’idea dell’immane catastrofe ecologica, si provi ad immaginare che il Mediterraneo, dagli anni ‘60 ad oggi, si sia prosciugato per metà e trasformato in un deserto. Nel Mar Caspio, invece, a causa delle numerose dighe costruite, le acque (diventate zona di scarico per numerose industrie petrolchimiche) sono cresciute in vent’anni di quasi due metri e mezzo, allagando un milione di ettari di terreno; il fenomeno è in accelerazione, e nell’eventualità di un’inondazione prossima ventura si stanno facendo sfollare 250 mila persone.

Sulle coste del Mar Nero è stata portata avanti per decenni la costruzione di case, alberghi e impianti mediante l’escavazione della terra e della sabbia del luogo. Dato che non vi era proprietà privata, nessun valore veniva dato a questi materiali, e il risultato è stato l’erosione di circa il 50 per cento delle coste in meno di 40 anni, con tutti i pericoli di frane e slavine immaginabili. I fiumi più importanti, come il Volga, l’Ob, l’Oka, lo Yenesei, l’Ural hanno registrato la scomparsa di quasi tutti i loro pesci, a causa dei rifiuti chimici, perchè le fabbriche sovietiche disperdevano i propri scarichi dappertutto, senza alcun riguardo per l’ambiente circostante, visto come un unico, immenso (e tragico) “bene collettivo”. La vita animale nel lago Bajkal si è così ridotta del 50 per cento nell’ultimo secolo.

In Polonia la zona industriale di Katowice è forse la più inquinata del mondo, e nelle vicinanze la pioggia acida ha reso impossibile qualsiasi coltivazione. Nell’ex Germania Est si ritiene che il 40% della popolazione soffra di disturbi derivanti dall’inquinamento dell’aria, circa il 20% delle foreste sono state rase al suolo, e un altro 40% rischia di scomparire. La situazione non è migliore in Cecoslovacchia, in Romania, in Bulgaria e in Ungheria, mentre in Cina sotto Mao si sono desertificati circa 8 milioni di acri di foresta, e la polluzione fluviale ha ostacolato a tal punto le migrazioni dei pesci che per un certo periodo di tempo tale alimento scomparve dalla dieta cinese.

Davanti a simili esempi pare assurdo credere ancora al mito della classe politico-burocratica guardiana del pubblico bene dalle insidie dell’egoismo privato, e proporre ulteriori nazionalizzazioni e controlli governativi delle risorse naturali. Ma l’atteggiamento si spiega probabilmente con l’incomprensione, diffusa tra gli ecologisti, dei meccanismi di mercato fondati sulla proprietà privata. (pp. 12-13)

 

 

Solo i segnali trasmessi dai prezzi di mercato possono consentire una razionale gestione e conservazione delle risorse naturali

Da: Carlo Lottieri-Guglielmo Piombini, Privatizziamo il chiaro di luna! Le ragioni dell’ecologia di mercato, Leonardo Facco Editore, Treviglio (BG), 1996.

Una delle profezie nel tempo più ripetute dalle cassandre ecologiste è quella secondo cui il pianeta starebbe per giungere all’esaurimento delle sue risorse a causa dell’irresponsabile tentativo dei paesi occidentali di mantenere inalterato il proprio standard di vita fondato sullo spreco e sul consumo. Per gli ecologisti più radicali solo una pianificazione ecologica promossa a livello mondiale dai governi o dalle Nazioni Unite può evitare un futuro di desertificazioni, guerre, e carestie. Davanti a questi scenari da incubo, i liberali devono chiedersi se le costanti smentite della storia a tutte le fosche premonizioni propagate nei secoli, da Malthus al Club di Roma, non rappresentino già un forte indizio per dubitare del carattere scientifico delle teorie dei catastrofisti, il cui vizio costante sembra consistere in una incomprensione del ruolo fondamentale giocato dal meccanismo di mercato nella conservazione e nell’ampliamento dell’offerta delle risorse naturali.

Prendiamo l’esempio del rame. Per quale motivo, si chiede Murray Rothbard, i bisogni crescenti della nostra civiltà industriale non hanno finora esaurito la disponibilità di questo minerale (così come di altri)? La ragione è che i proprietari dei giacimenti, una volta scoperta una vena di rame, non lo estraggono tutto immediatamente, ma gradualmente, anno dopo anno, secondo un piano di sfruttamento razionale. Se triplicassero la produzione di rame per l’anno corrente, potrebbero probabilmente triplicare il loro reddito annuale, ma in questo modo rischierebbero di esaurire anche la miniera, insieme ai loro redditi futuri. Nel mercato questa perdita di reddito futuro si riflette immediatamente nel valore monetario del giacimento. Il suo prezzo sul mercato è determinato infatti dalle aspettative di futuro guadagno derivanti dall’estrazione del rame che contiene, e ogni diminuzione della sua quantità abbassa il valore della miniera. Ogni estrattore di rame deve quindi soppesare i vantaggi derivanti da un aumento immediato di reddito con gli svantaggi della perdita di valore del suo capitale. Queste decisioni sono prese sulla base delle aspettative del futuro valore e della futura domanda del rame, per cui, se ci si attende che in tempi brevi questo minerale verrà reso obsoleto da un nuovo metallo sintetico, i gestori delle miniere accelereranno senza indugi la produzione del rame, ora che è altamente valutato, e non ne risparmieranno granché per un tempo successivo in cui avrà poco valore. Al contrario, se le previsioni indicano una scarsità di rame nel prossimo futuro, i proprietari dei giacimenti ne estrarranno di meno nell’immediato, riservandosi di aumentare la produzione in un tempo successivo, quando i prezzi saranno più alti; questo comportamento beneficerà la società, perché più rame verrà prodotto nel periodo in cui il bisogno è più intenso.

L’economia libera contiene pertanto uno straordinario meccanismo interno autoregolato, per mezzo del quale le decisioni produttive dei proprietari delle risorse finiscono con l’avvantaggiare non solo loro stessi, ma soprattutto la massa dei consumatori e l’economia nel suo complesso. Il mercato non si limita però a questo: la previsione di una futura scarsità di rame induce gli operatori a ritirarlo dal mercato, al fine di risparmiarlo per i periodi di magra. L’incremento di prezzo così provocato avrà numerosi effetti conservativi: segnalerà innanzitutto agli acquirenti che il rame è diventato più scarso e quindi più costoso, inducendoli a non consumarne troppo e a sostituirlo con metalli meno cari o con materiali plastici. Il rame verrà invece utilizzato solo per quegli usi per i quali non vi è un soddisfacente sostituto. E non è tutto, poiché il maggior costo del rame stimolerà la corsa alla ricerca di nuovi giacimenti di questo minerale o di altri meno costosi, oltre che la scoperta di nuove invenzioni tecniche. L’aumento del prezzo del rame incentiverà inoltre le campagne a favore della conservazione e del riciclaggio del metallo.

Questo processo basato sui prezzi liberamente formati costituisce la ragione precisa per cui il rame non solo non è scomparso da tempo, come i ragionamenti degli ecologisti avrebbero lasciato prevedere, ma nuove fonti sono state scoperte recentemente in Africa, in Sudamerica, in Usa e in Canada. Inoltre, gli incentivi forniti dal mercato hanno permesso lo sviluppo delle fibre ottiche, molto meno ingombranti e più efficienti del rame, che hanno rivoluzionato in maniera stupefacente le comunicazioni, abbassandone enormemente i costi.

Queste conquiste straordinarie non si sono avute per merito dell’attuazione di un qualche visionario piano ecologista, tutti miseramente falliti ogni volta che si è cercato di metterli in pratica (come quello dei combustibili sintetici, ideato dal governo statunitense in risposta alla crisi petrolifera degli anni ‘70), ma solo per merito dell’azione invisibile delle forze del mercato. Non sono stati i governi, ricorda Julian Simon, a scoprire il carbone, il petrolio, o qualsiasi altra risorsa o nuovo metodo di sfruttamento, ma solo imprenditori singoli che avvertirono esigenze, riconobbero opportunità, e usarono ogni genere d’informazione e d’idee a loro disposizione. La gestione burocratica e centralizzata delle risorse naturali propugnata dagli ambientalisti porterebbe invece a sprechi o a disagi colossali, perché i produttori e gli utilizzatori delle risorse rimarrebbero come ciechi, privi delle informazioni fornite dai prezzi riguardo cosa, quanto, e come produrre o consumare. Le lunghe file dei compratori e i rapidi esaurimenti di risorse rappresentano la regola in ogni economia gestita in spregio dei segnali di mercato. (pp. 19-20-21)

 

 

Le specie animali in pericolo d’estinzione sono quelle che mancano di un proprietario privato

Da: Carlo Lottieri-Guglielmo Piombini, Privatizziamo il chiaro di luna! Le ragioni dell’ecologia di mercato, Leonardo Facco Editore, Treviglio (BG), 1996.

Un altro settore dove l’inefficienza della gestione statale delle risorse si manifesta in tutta la sua evidenza è quello delle acque. Gli oceani, i mari, i laghi e i fiumi rappresentano l’emblema della noncuranza, della devastazione ambientale, dello sfruttamento selvaggio delle risorse. La colpa è veramente del nostro sistema economico, che ha fatto del profitto un idolo, come sostengono gli ambientalisti? Questo modo di ragionare continua a trascurare il dato fondamentale che solo i beni pubblici sono minacciati, proprio perché manca un proprietario interessato alla loro conservazione.

Lo stesso grave fenomeno del progressivo spopolamento ittico è una semplice conseguenza di questa situazione. Nessun pescatore ha interesse a limitarsi nella quantità pescata o a fare investimenti di ripopolazione, perché, essendo privo di diritti esclusivi di proprietà sul tratto di mare in cui pesca, non potrà beneficiare di questi suoi sforzi, continuamente messi a repentaglio dalle azioni contrarie di altri pescatori. Il biasimo moralistico qui è fuori luogo, perché in una situazione di comunismo anarchico dei mari le condotte predatorie risultano inevitabilmente essere le uniche razionali

Se il mare venisse privatizzato, i titolari di diritti si preoccuperebbero principalmente delle conseguenze a lunga portata delle proprie azioni, e un semplice calcolo di costi e benefici li porterebbe a destinare una parte delle proprie risorse alla sorveglianza della proprietà, per evitare che altri utilizzatori ne compromettano il potenziale nutritivo

Le regolamentazioni internazionali sono del tutto inefficaci anche nell’urgente problema della tutela delle balene. Questi cetacei, spiega Walter Block, sono destinati all’estinzione per il solito fatto che, non appartenendo a nessuno, sono privi di un guardiano (che non sia il buon cuore di qualcuno o l’inefficienza burocratica) che le salvi dai bracconieri. Se le balene fossero privatizzate, il problema della loro sopravvivenza non si porrebbe in termini diversi di quanto oggi si ponga per le mucche. I proprietari ovviamente non agirebbero per bontà, ma per interesse, cercando di valorizzare in maniera razionale la propria ricchezza, ad esempio vendendone la carne e il grasso oppure organizzando visite turistiche a bordo di baleniere.

I pesci e le balene non sono gli unici animali vittime di politiche stataliste errate. Nel mondo vi sono altre specie, come gli elefanti, le tigri, i panda, i rinoceronti, alcuni uccelli, che rischiano l’estinzione. La responsabilità sarebbe, a detta di Greenpeace e di altri movimenti verdi, dello sfruttamento commerciale senza scrupoli fatto sulla pelle di questi esseri. Ancora una volta viene addossata al capitalismo l’accusa di non saper apprezzare valori come la “biodiversità” e l’equilibrio ecologico.

Le cose stanno veramente così? Perchè allora alcune famiglie di animali, come i cani, i gatti, i bovini, i suini, gli equini, il pollame, la cui richiesta è altissima in tutto il mondo, non rischiano minimamente l’estinzione, mentre le altre ricordate sopra, per le quali la domanda del mercato è estremamente più bassa, corrono un grave pericolo di scomparsa?

I buoi e le mucche, così come i cani e i gatti, non scompariranno mai dalla faccia della terra, per quanto intensivo possa esserne lo sfruttamento economico, finchè apparterranno a padroni preoccupati della loro salute e della loro proliferazione. Le specie animali che non hanno un proprietario, in quanto res nullius, o la cui proprietà sia statale, sono invece condannate a scomparsa certa, come già sta avvenendo. Una storia esemplare al riguardo, che tutti conoscono, è quella della diversa sorte capitata nel secolo scorso alle vacche e ai bisonti del Far-West americano. Le prime, in proprietà privata di allevatori, si sono moltiplicate in maniera stupefacente; i secondi, di proprietà pubblica, si sono quasi estinti.

Un altro esempio, meno noto ma più attuale, riguarda gli elefanti africani. Secondo le organizzazioni ambientaliste più ascoltate dai governi, l’unico mezzo per evitare la loro estinzione sarebbe la messa al bando del commercio dell’avorio (così votarono i delegati del meeting biennale della Convenzione sul commercio internazionale delle specie in pericolo a Losanna nel 1989). […] Mentre il Kenya ha adottato la soluzione proposta a Losanna, lo Zimbabwe (seguito poi dal Botswana, dallo Zambia, dal Malawi, dalla Namibia, e dal Sudafrica) ha invece ritenuto che affidando gli elefanti alle tribù e ai villaggi la loro salvezza sarebbe stata molto più probabile che non ricorrendo a costosi programmi governativi centralizzati o a inapplicabili restrizioni commerciali.

I fatti hanno confermato pienamente questa previsione. Il numero complessivo degli elefanti in Africa è effettivamente calato in maniera drammatica da 1,3 milioni del 1979 a 750.000 di oggi, ma nell’ultimo decennio nei paesi che hanno adottato soluzioni di mercato invece che proibizioniste il loro numero è aumentato incredibilmente del 40%. Nello Zimbabwe, da quando il presidente Mugabe ha deciso di attribuire gli elefanti in proprietà alle tribù, questi si sono moltiplicati a ritmi anche del 7% annuo. […] In Kenya purtroppo la situazione è ben diversa. Qui gli elefanti sono stati dichiarati di proprietà collettiva del popolo, e vengono “protetti” dalle guardie governative in riserve statali. I risultati sono così miserevoli che secondo il Presidente Arap Moi, continuando di questo passo, nel 2005 non esisterà più un solo elefante in tutto il Kenya.

Perché gli elefanti kenioti hanno avuto un destino così diverso da quelli dello Zimbabwe? Il riferimento all’Ovest americano del secolo scorso è illuminante, se si paragonano i primi ai bisonti e i secondi alle vacche. I villaggi dello Zimbabwe considerano gli elefanti, di cui sono diventati legittimi proprietari, come una ricchezza da amministrare con molta cura, non solo per l’avorio e la carne: la tariffa richiesta ai turisti-cacciatori per poter abbattere un elefante in un safari è di 25000 dollari. L’incentivo dato alle tribù nell’apprezzare il benessere a lungo termine degli elefanti ha rappresentato così non solo un mezzo di conservazione ambientale, ma anche uno strumento di ricchezza economica di non scarsa importanza in paesi tradizionalmente poveri come quelli africani. (pp. 30-36)

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