Miglioverde, 20 ottobre 2016 di Guglielmo Piombini |
L’idea di Alberto Mingardi di tradurre e curare, per la casa editrice Liberilibri di Macerata, L’uomo contro lo Stato di Herbert Spencer (2016, pp. 296, € 20,00) è opportuna per due motivi: perché le precedenti traduzioni italiane sono difficilmente reperibili, e perché offre una fresca prospettiva di rilettura di un pensatore popolarissimo ai suoi tempi, ma oggi poco ricordato. Questa nuova versione contiene in più anche Il giusto ruolo del governo, un’opera giovanile nella quale Herbert Spencer (1820-1903) espose per la prima volta i suoi ideali politici liberali e individualisti.
Nella sua magnifica introduzione Alberto Mingardi, che al pensiero politico di Spencer aveva già dedicato una monografia accademica in lingua inglese pubblicata da Bloomsbury nel 2011, presenta al lettore un completo ritratto biografico e intellettuale del filosofo inglese e chiarisce gli aspetti più discussi del suo pensiero, dimostrando che Spencer era un autentico liberale classico, non un reazionario antidemocratico come la critica l’ha spesso raffigurato; e che non cambiò il suo modo di pensare nel corso degli anni, ma mantenne una sostanziale coerenza di pensiero fino alla fine della sua vita.
Il trionfo della perseveranza
Spencer fu ammirevole non solo per le sue idee, ma anche come uomo. Colui che doveva diventare il massimo filosofo inglese di tutto il suo secolo fu sostanzialmente un autodidatta. Dopo aver compiuto pochi studi regolari lavorò nelle costruzioni ferroviarie e nel giornalismo. La svolta della sua vita avvenne a seguito della pubblicazione nel 1851 di Social Statics, che Murray N. Rothbard definirà “la maggiore opera di filosofia libertaria mai scritta”. I riconoscimenti che per questo suo lavoro ricevette da John Stuart Mill, Thomas Huxley e altri grandi esponenti della cultura inglese del tempo rivelarono a Spencer la sua vera vocazione. Due anni dopo decise di abbandonare il posto di redattore a L’Economist per dedicarsi a tempo pieno agli studi.
Sviluppò il principio dell’evoluzione prima che Darwin lo esponesse compiutamente nel campo della biologia e, nel 1858, progettò un vasto sistema di Filosofia Sintetica basato sull’idea di estendere la teoria evolutiva a tutte le scienze umane. Ma come avrebbe potuto un uomo di quasi quarant’anni e cagionevole di salute scrivere interi trattati su tutte le discipline sociali? Forse nessuno prima di lui aveva mai scelto, così tardi nella vita, un lavoro così vasto e impegnativo.
Tenne fede a questo suo proposito con una perseveranza e una caparbietà fuori dal comune, dedicando ogni minuto a questa missione intellettuale. Rinunciò a sposarsi e ad avere una vita sociale, e visse in tranquilla solitudine. Rifiutò persino una cattedra universitaria a Cambridge, preferendo guadagnarsi da vivere con i suoi libri e i suoi articoli. Organizzò il lavoro con il massimo scrupolo: impiegò tre segretari a raccogliere e ordinare una massa enorme di dati per classificare le istituzioni e le caratteristiche di tutti i popoli del mondo.
Per quarant’anni rimase sulla breccia, portando a termine tutti i ponderosi volumi di migliaia di pagine che aveva progettato: nel 1862 pubblicò i Principi Primi, e di seguito i Principi di Biologia, i Principi di Psicologia, i Principi di Sociologia (probabilmente il suo capolavoro) e i Principi di Etica. Nel 1869 si stupì di veder adottati i Principi Primi come libro di testo a Oxford. Nei decenni successivi giganteggiò nel panorama intellettuale internazionale come un autentico colosso, diventando il pensatore più famoso e influente del suo tempo. Anche gli avversari, ricorda Mingardi, ne avevano il massimo rispetto. Spencer affrontava gli argomenti più complessi in termini così limpidi, esponendo i dati, i ragionamenti e le conclusioni con tale chiarezza e coerenza che tutto il mondo si interessò alla sua filosofia. I suoi scritti esprimevano lo spirito di un’epoca, e venivano immediatamente tradotti ovunque, persino in Russia, in Cina e in Giappone.
La vita di Spencer ci offre una lezione di metodo e di carattere. La realizzazione del suo progetto filosofico fu un vero trionfo dell’intelletto e della volontà su mille ostacoli fisici e finanziari. È incredibile la quantità di lavoro che riesce a realizzare un uomo, quando si pone un obiettivo e lo persegue con costante perseveranza. I frutti, quasi sovrumani, della sua operosità confermano i più aggiornati studi scientifici sulle grandi performance individuali, secondo i quali il talento naturale e le doti innate svolgono un ruolo più limitato di quanto si creda, mentre l’applicazione faticosa, metodica e ripetuta ha una rilevanza decisiva (cfr. Geoff Colvin, La trappola del talento, Rizzoli, 2009; Anders K. Ericsson, Numero 1 si diventa, Sperling, 2016).
L’impegno nel perfezionamento personale come modo per migliorare la società faceva parte delle sue convinzioni. Ne L’uomo contro lo Stato espresse infatti una filosofia del self-help analoga a quella diffusa a livello popolare da Samuel Smiles, il più celebre predicatore vittoriano del Vangelo del Lavoro. Per Spencer le istituzioni sociali rispecchiano sempre il carattere dei cittadini, e sarebbe vano attendersi un miglioramento delle prime “senza quel miglioramento del carattere che risulta dall’esercizio di una industriosità pacifica”.
L’uomo contro lo Stato
Pur impegnato nelle sue ricerche scientifiche,Spencer partecipò alla battaglia delle idee politiche con numerosi saggi e articoli. Nel 1884 pubblicò L’uomo contro lo Stato, che Mingardi considera giustamente “un autentico classico del pensiero liberale”, da porre sullo stesso piano di opere celebri come La Legge di Frédéric Bastiat, il Saggio sulla libertà di John Stuart Mill e La via della schiavitù di Friedrich von Hayek. In questo libro Spencer confermò la sua reputazione di difensore di una rigorosa limitazione dei poteri pubblici, affrontando numerose questioni con esemplare chiarezza e vigore.
Ricordò i meriti passati del liberalismo ma polemizzò con i whig al governo per aver promosso una legislazione sociale paternalista, tradendo così la propria missione di difesa dell’individuo dalla coercizione dello Stato; criticò le tasse, il cui effetto è sempre quello di ridurre la libertà individuale (infatti è come se il governo dicesse al contribuente:“Finora hai speso liberamente questa porzione dei tuoi guadagni, ma d’ora in avanti la spenderai come dico io”); condannò le leggi assistenziali a favore dei poveri; mise in guarda dallo sviluppo della burocrazia, dal potere crescente dei funzionari e dalla brama per gli impieghi pubblici che aveva contagiato anche i ceti medi industriosi; attaccò il socialismo come schiavitù, profetizzando con esattezza i suoi esiti totalitari; dimostrò il carattere mistico e superstizioso della fede nello Stato, talmente irrazionale da resistere a tutti i suoi manifesti e ripetuti fallimenti; spiegò che tutti i progressi sono nati dalle attività spontanee degli individui, non dall’azione dei governi (“Provate a togliere al meccanismo politico tutti gli strumenti forniti dall’arte e dalla scienza, lasciandogli soltanto quelli che si sono inventati i suoi funzionari, e vedrete che non potrà fare nulla”); denunciò l’autorità illimitata dei parlamenti, chiudendo il libro con questo auspicio: “In passato la funzione del liberalismo fu quella di porre un limite ai poteri del re. In futuro la funzione del vero liberalismo sarà quella di porre un limite ai poteri del parlamento”.
Spencer criticava l’intervento pubblico per tre ragioni principali: perché implicava l’uso di poteri coercitivi a danno della libertà individuale, perché scoraggiava l’auto-miglioramento personale del carattere, e perché andava contro le “leggi naturali” della vita. Questa sua ultima posizione ha dato però a Spencer una fama di “darwinista sociale” che in seguito ha contribuito non poco al declino della sua fortuna intellettuale anche all’interno del mondo liberale.
Perché Spencer non era un darwinista sociale
Il “darwinismo sociale” è una dottrina, in auge alla fine dell’800 e nei primi decenni del ‘900, che pretende di applicare i principi biologici della lotta per l’esistenza e della sopravvivenza del più adatto alle società umane. Viene di solito associata alle politiche eugenetiche finalizzate al miglioramento della razza, alle crudeli affermazioni sulla necessità che “la natura faccia il suo corso” eliminando i deboli e gli inadatti dalla faccia delle terra, all’esaltazione della guerra come igiene del mondo, alla giustificazione del dominio dei popoli più forti su quelli ritenuti arretrati o inferiori: posizioni incompatibili con la tradizione morale della civiltà occidentale, cadute nel generale discredito insieme al nazional-socialismo dopo la seconda guerra mondiale.
Ora, come può essere considerato socialdarwinista un pensatore pacifista, anti-militarista, anti-imperialista, anti-schiavista, anti-colonialista e individualista come Spencer, il quale in un capitolo di Social Statics arrivò a teorizzare, ai limiti dell’anarchia, il diritto dell’individuo di ignorare lo Stato e di vivere come se questo non ci fosse? Spencer infatti non fu mai considerato un darwinista sociale dalla sua generazione e da quelle immediatamente successive. Questo stereotipo è stato diffuso, a partire dalla metà degli anni ’50 del ‘900, da accademici che hanno tranquillamente sorvolato sul legame molto più evidente tra il darwinismo sociale e la tradizione socialista. Come osserva acutamente Mingardi, Herbert Spencer non era un sostenitore dell’eugenetica, ma il socialista fabiano George Bernard Shaw sì. L’adesione dei progressisti d’inizio XX secolo ai postulati del darwinismo sociale, in effetti, è un tema piuttosto imbarazzante per la sinistra. Ciò che gli intellettuali di sinistra di oggi cercano di nascondere è che fin dall’inizio l’ideologia socialista fu, in molte sue varianti, imperialista, scientista, eugenista e favorevole alla soppressione delle classi o popolazioni arretrate.
Queste idee, osserva George Watson in un libro che ha riportato a galla questa vasta letteratura perduta del socialismo (The Lost Literature of Socialism, 2004), sono presenti non solo nei padri fondatori del socialismo scientifico, Karl Marx e Friedrich Engels, e nei loro seguaci, ma anche tra le fila dei socialdemocratici o dei socialisti fabiani come H. G. Wells, Jack London, Havelock Ellis, Sidney e Beatrice Webb, George Bernard Shaw. Il plauso dei socialisti di ogni colore per la brutalità e l’aggressività raggiunse il suo culmine negli anni Trenta, sulla scia di quanto andava realizzando Stalin in Unione Sovietica. Durante una visita in Ucraina nel 1932, ai tempi della grande carestia pianificata dal regime, Beatrice Webb osservò con soddisfazione i treni-bestiame carichi di “nemici del popolo” affamati. Nel 1933, nella prefazione al libro On the Rocks, Shaw derise il principio della santità della vita umana come un’assurdità inaccettabile per ogni buon socialista, e chiese che lo sterminio delle classi nemiche venisse posto “su basi scientifiche”. Poco dopo su The Listener rivolse un appello ai chimici perché scoprissero“un gas umano che ammazzi istantaneamente e senza far soffrire: un gas gentiluomo, certamente mortale ma umano e non crudele”.
Le idee socialiste, conclude Watson, offrivano un assegno in bianco alla violenza, e questa licenza di uccidere includeva lo sterminio: «La pulizia etnica ha fatto parte del socialismo ortodosso per un secolo e oltre … Nei cento anni che vanno dall’articolo di Engels nel 1849 fino alla morte di Hitler, tutti coloro che sostennero il genocidio si definirono socialisti, e non è possibile trovare alcuna eccezione». Inoltre fino agli anni Settanta del ‘900 alcuni governi socialisti occidentali, come quello svedese, praticarono l’eugenetica contro i minorati e i “meno adatti”, mediante la sterilizzazione forzata. Niente di strano, dato che l’eugenetica è la trasposizione della pianificazione sociale dalla produzione economica alla riproduzione umana.
Il socialismo come ritorno alla società militare
Quando Spencer coniò per la prima volta la locuzione “sopravvivenza del più adatto” non pensava alla lotta dell’uomo contro l’uomo ma, come fa notare Mingardi, allo scontro tra gli individui e le condizioni ambientali. Il principio spenceriano dell’evoluzione spontanea ha un senso analogo alla selezione evolutiva delle norme tradizionali di cui parla Hayek: nel lungo periodo prosperano le società che adottano le pratiche e le istituzioni più adatte alla sopravvivenza e alla proliferazione dell’umanità, come la famiglia, il mercato e la proprietà privata.
All’opposto dei socialdarwinisti, Spencer non credeva che il dominio dei forti sui deboli rappresentasse un progresso. Anzi, nella sua filosofia ottimistica l’evoluzione sociale avrebbe portato alla progressiva affermazione delle “società commerciali” basate sugli scambi e le relazioni volontarie, rendendo le società “militari” fondate sull’irreggimentazione degli individui sempre più ricordi del passato. Le nazioni industriali che vivono di lavoro avrebbero col tempo dimostrato la loro superiorità sulle nazioni militarizzate che vivono sulle risorse prodotte da altre.
Spencer riteneva che il socialismo fosse una derivazione del tipo di Stato militarista, e che non avesse alcuna affinità naturale con l’industria. Come il militarismo, il socialismo implicava l’accentramento, l’estensione del potere governativo, la decadenza dell’iniziativa privata e la subordinazione dell’individuo al collettivo. La catastrofica esperienza dei regimi comunisti nel XX secolo, avvenuta esattamente secondo le linee previste da Spencer, rappresenta dunque una medaglia al merito intellettuale da apporre sul suo petto.
Rigore vittoriano
Le critiche alle politiche assistenziali che si trovano ne L’uomo contro lo Stato suonano particolarmente dure per la sensibilità di oggi, e hanno creato degli equivoci sul carattere spietato, “cane mangia cane”, della dottrina spenceriana del laissez-faire. Il filosofo inglese, nella sua austera morale vittoriana, non temeva di affermare alcune semplici verità “politicamente scorrette”: che a volte la povertà è la conseguenza di una condotta sconsiderata, e che non pare né giusto né utile alleviarla a spese delle persone previdenti e produttive. In un modo o nell’altro, infatti, il mantenimento degli oziosi, dei nullafacenti e dei soggetti delinquenziali grava sempre, attraverso la tassazione, sulle diligenti famiglie lavoratrici che risparmiano e sgobbano duro. Dalla protezione dei poveri viziosi, scrive Spencer, deriva l’aggressione ai poveri virtuosi.
Egli non era contrario alla filantropia in sé, ma solo a quella statale. La carità privata, infatti, è molto più efficace di qualsiasi programma di welfare proprio perché è personalizzata e quindi attenta a non confondere il povero “meritevole” e quello “immeritevole”: una distinzione di sano buon senso, oggi censurata dall’ideologia egualitaria. In verità, lungi dall’essere antiquata o sorpassata, l’idea secondo cui “chi non lavora non mangia” esprime un’etica del lavoro caratteristica delle civiltà in ascesa; al contrario, l’accettazione sociale del parassitismo tipica dei nostri tempi, nei quali il vivere alle spalle degli altri non viene più stigmatizzato ma è anzi considerato un “diritto” da rivendicare, si ritrova in tutte le epoche decadenti della storia.
Dall’apogeo al declino
Quando nel 1884 uscì L’uomo contro lo Stato la mentalità stava già cambiando nella direzione opposta. La fama di Spencer svanì rapidamente, e negli ultimi anni della sua vita provò l’amarezza di vedere quanto fossero stati inutili tutti i suoi allarmi sulla crescente invadenza dello Stato e della legislazione. Poco prima di morire, nel 1903, pensò che forse tutte le sue fatiche e tutte le sue opere erano state vane, ed espresse rimpianto per le semplici gioie della vita a cui aveva rinunciato in cambio della fama intellettuale.
Tuttavia, quasi a conferma postuma della sua dottrina sociologica, la fortuna delle idee di Spencer ha finito per coincidere esattamente con la parabola dell’Occidente. La civiltà di origine europea raggiunse l’apice del successo planetario e dell’espansione culturale, economica e demografica quando la sua nazione guida, l’Inghilterra vittoriana, ammirava Spencer e si rispecchiava nelle sue idee. Perse rapidamente il suo primato quando rifiutò le logiche progressive della società commerciale per ritornare alle logiche regressive della società militare e alla “schiavitù” (per dirla con le parole di Spencer) del socialismo democratico.
In termini assoluti il mondo ha conosciuto un grande sviluppo rispetto ai tempi di Spencer, ma in termini relativi la distanza abissale che allora separava la civiltà europea dalle altre non esiste più, e non sono pochi gli osservatori che profetizzano l’imminente “morte dell’Occidente”. Altre società più dinamiche, più “industriali” in senso spenceriano, stanno prendendo il suo posto. Il grande filosofo dell’epoca vittoriana sta avendo la sua rivincita nei confronti della società che non ha più voluto ascoltarlo.